Elezioni comunali: partiti e cacicchi addio?
Dove si dimostra che l’attuale sistema dei partiti è giunto al capolinea.
Tramonta il cosiddetto partito dei sindaci, ma al contempo va in corto circuito anche la funzione di regia e di guida tradizionalmente esercitata dai vecchi partiti. Più che un test per la maggioranza provinciale, le elezioni comunali di domenica 14 maggio sono state, insomma, un’occasione per vedere come gli elettori si rapportano con le istituzioni e con una politica in continua transizione.
Nel momento in cui scriviamo, diversi comuni attendono ancora l’esito dei ballottaggi, mentre in amministrazioni importanti come Rovereto e Levico la sfida per l’elezione del sindaco deve ancora iniziare. Difficile quindi valutare chi ha vinto o chi ha perso. Anche perché, con oltre duecento comuni andati alle urne, oltre duecento alleanze diverse ed oltre duecento distinti esiti, ogni interpretazione, a questo riguardo, sarebbe possibile.
Eppure, questa tornata elettorale offre spunti di riflessione molto interessanti. Ma andiamo per punti.
I sindaci uscenti erano stati i primi ad aver usufruito della nuova legge sull’elezione diretta del primo cittadino, varata dal Consiglio regionale nel 1994. Una legge nata sulla falsariga di quella statale, introdotta dal Parlamento nel 1993 per scongiurare un referendum che avrebbe introdotto il maggioritario secco, bipartitico, in tutti i comuni. Si tratta di un sistema di compromesso, con un piede nel maggioritario e l’altro nel proporzionale, ideato con l’obiettivo di salvare capra e cavoli: garantire stabilità ai comuni attraverso l’elezione diretta del sindaco col maggioritario, ma al contempo salvare il sistema dei partiti della prima Repubblica attraverso l’elezione del consiglio col metodo proporzionale. E per il Trentino, come purtroppo accade da molto tempo, nel recepire la legge statale il Consiglio regionale ha pensato bene di fare un compromesso del compromesso. Il risultato finale, in tutt’Italia ed ancor più in Trentino, è stato quello di squilibrare pesantemente il rapporto tra il sindaco - rafforzato dall’elezione diretta - ed il consiglio comunale - paralizzato da una sconfinata frammentazione dei partiti e pertanto pesantemente delegittimato.
In verità il problema non riguarda solo i comuni. Tutte le riforme elettorali varate in questi anni per i vari livelli istituzionali - comuni, Province, Regioni e Parlamento - contengono il vizio di una scelta non chiara tra maggioritario e proporzionale.
Al posto della logica bipartitica che caratterizza tutte le moderne democrazie (la competizione vera, in Germania, è tra Spd e Cdu, in Francia è tra socialisti e gollisti, in Spagna tra popolari e socialisti, in Gran Bretagna tra laburisti e conservatori, negli Usa tra democratici e repubblicani), in Italia si è invece seguita la strada del "polarismo", dando vita a coalizioni all’interno di ciascuna delle quali, alla fine, è rappresentato l’intero vecchio arco parlamentare, basti pensare che il centrosinistra può contare tra le proprie fila dal fascista Misserville al comunista Cossutta. Ovvio quindi che, a lungo andare, questa situazione avrebbe provocato non già la salvezza dei partiti della prima Repubblica pur all’interno di una democrazia competitiva – come speravano i conservatori del vecchio sistema – bensì la loro progressiva ed inesorabile delegittimazione.
In questo desolante panorama, i sindaci eletti direttamente nel ’95 sono emersi quale nuova classe dirigente, slegata dai partiti ed associata all’idea della modernità, del futuro. Nacque il fenomeno del cosiddetto "partito dei sindaci", che in Trentino raggiunse l’apice a ridosso delle elezioni regionali del novembre ’98, quando i sindaci si trovarono uniti a gridare, rivolgendosi ai consiglieri provinciali uscenti, "tutti a casa".
Ebbene, domenica 14 maggio il partito dei sindaci sembra essersi, se non sgretolato, quantomeno fortemente ridimensionato. Eppure, sarebbe un errore ritenere che si stia vivendo una sorta di riflusso, di voglia di ritorno al passato. Tutt’altro, anche perché si tratterebbe di un passato che in ogni caso non potrebbe tornare. Il fatto è che, in molti casi, i sindaci hanno commesso l’errore di pensare che la loro forza derivasse non già dal cambiamento delle regole elettorali ed istituzionali, bensì dal loro consenso personale. Molti hanno insomma confuso, non riuscendo ad interpretare correttamente il nuovo sistema, i voti raccolti come candidati alla carica di sindaco, con quelli che si raccoglievano col sistema delle preferenze. Come fossero, quindi, voti per la persona anziché per il progetto politico. Cosicché, sopravvalutando il proprio consenso, in molti casi hanno pensato di poter contare soltanto su se stessi e di poter prescindere dal confronto con la propria maggioranza e più in generale col consiglio. Un atteggiamento che in alcuni casi ha sconfinato nell’arroganza ed in una concezione plebiscitaria della democrazia. In maniera sprezzante, com’è suo stile, D’Alema aveva definito questa tipologia di sindaci il "partito dei cacicchi".
Mentre perdevano pezzi di maggioranza, vicesindaci, assessori e collaboratori, questi sindaci continuavano imperterriti per la loro strada, sicuri che "il popolo" fosse dalla loro parte. Lunedì 15 maggio dev’essere stato, per loro, un risveglio amaro, un ritorno alla cruda realtà. La batosta ha riguardato indifferentemente i vari schieramenti politici, ma a leccarsi le ferite maggiori è la sinistra, che ha perso numerosi comuni conquistati nel ‘95. Il caso più emblematico è quello di Molina di Ledro, dove il sindaco uscente è arrivato addirittura terzo, raccogliendo un miserando 13 per cento.
Ovviamente non si può generalizzare, poiché spesso questi sindaci hanno utilizzato il loro potere per compiere scelte innovative ed impopolari, pagando a caro prezzo il loro coraggio. Ma ciò che conta, ai fini del nostro ragionamento, è il fatto che queste elezioni hanno dimostrato che l’amministrare con coraggio non è sufficiente se si prescinde dal confronto, dalla mediazione, dalla ricerca del consenso. A Cles e a Dro la partita non è ancora chiusa (si attendono i ballottaggi), ma comunque vada la Flaim e Micheletti (ai quali facciamo i migliori auguri) avranno di che riflettere sulla lezione del primo turno.
In definitiva si può dire che, pur con una legge elettorale pasticciata e squilibrata, la società si sta lentamente adattando da sola ai nuovi meccanismi, sopperendo direttamente alle carenze normative.
A dimostrazione di questa analisi v’è il caso - in sé splendido - di Lavis. Per Graziano Tomasin il confronto e la discussione sono stati un metodo di governo, non solo una necessità dovuta al fatto che gli mancava una maggioranza in Consiglio. Senza mai montarsi la testa per l’elezione diretta (ed anzi prendendo talvolta le distanze dal partito dei sindaci), dietro la sua proverbiale umiltà ha nascosto le caratteristiche del politico coi controfiocchi: limpido innovatore nell’azione di governo e paludato condottiero delle mediazioni politiche. Essere contro Tomasin, a Lavis, era di
ventata una cosa politicamente scorretta. Al punto che è riuscito a farsi sostenere compattamente dall’intero schieramento di centrosinistra. Fino al Patt, che ha accettato di ingoiare il rospo di partecipare ad una coalizione assieme ai nemici giurati delle Genziane.
La vicenda di Lavis introduce un altro argomento: la straordinaria forza d’attrazione delle coalizioni, a fronte del crollo di credibilità dei partiti. Laddove il centrosinistra si è presentato unito e compatto, come a Lavis appunto, ma anche a Pergine e, l’anno scorso, a Trento, si è respirato quel clima di fermento, di speranza e di partecipazione che aveva caratterizzato la vittoria dell’Ulivo, con Romano Prodi, alle politiche del 1996. In questi casi, il centrosinistra ha vinto alla grande, in piena scioltezza. Se in un comune tradizionalmente difficile per il centrosinistra come Pergine si sono viste - come molti commentatori avevano affermato - le "prove generali per le prossime elezioni politiche", ciò significa che il Trentino può ancora sperare di fare caso a sé, rispetto alle altre Regioni del nord. Il fatto interessante è che la compattezza della coalizione ha contato più della sua dimensione sulla carta. A vincere, insomma, non è stata una sommatoria di partiti e di sigle, ma quel "di più" rappresentato appunto dalla coesione interna della coalizione.
Il messaggio è chiaro: la società ha bisogno di un sistema bipartitico, come in tutte le altre moderne democrazie. Tanto più il centrosinistra assomiglia a un partito unico, sul modello del partito democratico americano, tantopiù raccoglie consenso. E tanto più assomiglia invece al pentapartito dell’epoca di Forlani e Craxi, tanto più è abbandonato dagli elettori. Al pari delle elezioni regionali di aprile, anche queste comunali in Trentino sono state, quindi, una lezione per i tanti partiti e partitini del centrosinistra.
I Ds, con Mauro Bondi e Alberto Pacher, avevano provato a lanciare l’idea di utilizzare l’occasione di queste comunali per rilanciare sin da subito la coalizione di centrosinistra. Un appello caduto in gran parte nel vuoto, a causa della voglia di contarsi della Margherita e della tentazione dei partitini di speculare sul doppio turno. Cosicché, come noto, in molti comuni il centrosinistra si è presentato diviso. E hanno perso tutti, com’era prevedibile.
Ciononostante, pur indietreggiando rispetto alle regionali, attraverso la logica dei due forni Dellai è riuscito a conquistare diverse amministrazioni. Nell’area ex diccì del centrosinistra convivono da sempre due prospettive: chi ritiene l’alleanza con la sinistra strategica, definitiva, e chi invece la ritiene solo tattica, temporanea, giusto il tempo necessario perché l’Italia si liberi di Berlusconi. La collocazione naturale dei popolari, sostengono questi ultimi, è alternativa alla sinistra, come in tutto il resto d’Europa (quindi con Kohl e Aznar). Dellai ha sempre detto da che parte sta, ossia con gli ulivisti, ma la necessità di convivere con l’altra componente l’ha portato spesso ad assumere posizioni ambigue.
Anche in questo caso, il risultato delle comunali è interessante. Perché ha dimostrato che entrambe le prospettive, almeno in Trentino, possono avere un futuro. Quando hanno scelto di allearsi con la sinistra hanno vinto, come abbiamo visto a Lavis e Pergine. Quando hanno scelto di contrapporsi alla sinistra hanno vinto lo stesso, come a Borgo Valsugana (sebbene manchi ancora il riscontro del ballottaggio). Chiunque vinca a Borgo, ciò che risulta interessante è il fatto che la competizione del secondo turno avverrà tra sinistra e centro, mentre la destra rappresentata dal Polo è rimasta schiacciata in un angolino, come fosse il vecchio Msi.
A Cles l’area popolare si è addirittura sdoppiata: un pezzo con la Flaim e l’altro coi suoi avversari, cosicché, comunque finisca, potranno in ogni caso dire di aver vinto. La facilità con la quale gli ex diccì hanno sfondato nell’elettorato di centrodestra fa riflettere, sia per quanto concerne la linea politica di Dellai (ambiente, infrastutture, ecc.), sia perché potrebbe ridare fiato a coloro che auspicano in Provincia un ribaltone che metta la sinistra all’opposizione.
A parte la piana Rotaliana e poche altre zone, dove si sono affermate coalizioni che si richiamano esplicitamente al centrodestra, per il resto la competizione di queste comunali sembra quindi essersi giocata tutta all’interno del centrosinistra, unito o diviso che fosse. Polo e Arcobaleno si sono rivelati inesistenti sul territorio. E d’altronde, soprattutto nelle valli, i referenti dell’elettorato conservatore sono ancora, in gran parte, i vecchi notabili democristiani, mentre i giovani rampanti eletti sindaci preferiscono dichiararsi non schierati, se non addirittura apartitici.
Veniamo quindi all’ultima considerazione. Fino agli anni ’80 sarebbe stato quasi impossibile, per un sindaco, anche di un piccolissimo comune, dichiararsi apartitico. I partiti rappresentavano un riferimento certo, un collegamento con la politica della Provincia e del Parlamento. Pur nella frammentazione dei comuni trentini, attraverso i partiti era possibile dare un significato più ampio anche alle piccole scelte amministrative. I partiti, insomma, svolgevano un ruolo di guida, politica e morale, dell’intera classe dirigente dei comuni. Oggi siamo invece all’estremo opposto, ad una sorta di balcanizzazione del Trentino. Ognuno per sé. Anche quando i sindaci hanno una tessera in tasca, per i rispettivi partiti si tratta tutt’al più di una bandierina su una cartina geografica, ma è difficile intravedere una linea politica comune, in grado di accostare le scelte amministrative che si compiono nelle varie parti del territorio.
Cos’hanno in comune Olivi, sindaco di Folgaria, e Giusy Fantinelli, candidata sindaco di Valfloriana, entrambi diessini? Ed anche per quanto concerne la Margherita, la forza d’attrazione che esercita sui sindaci sembra essere più dovuta alla convenienza che non alla condivisione di una linea politica: dietro quella sigla convivono infatti giovani progressisti carichi di speranze e trinariciuti democristiani al servizio dei cosiddetti poteri forti.
Non è, anche questa, la dimostrazione che l’attuale sistema dei partiti è arrivato al capolinea?