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QT n. 2, 22 gennaio 2000 Servizi

Gli umanisti e gli altri

Un singolare incontro, a Trento, fra insegnanti e studenti vecchi e nuovi.

Rimangono difficili, ancora oggi alla fine del XX secolo, i rapporti fra la cultura umanistica e quella scientifico-tecnologica, che pure sono le due costruzioni più importanti della storia umana. Soprattutto a scuola, quando il rapporto non è tra paradigmi, ma fra persone in carne e ossa: gli insegnanti chiamati a "formare" i giovani, e i giovani chiamati a imparare e a rielaborare un patrimonio culturale complesso.

Non corre buon sangue, solitamente, fra chi traccia i solchi delle discipline umanistiche, e chi traccia quelli delle discipline scientifiche. Non si va oltre i reciproci riconoscimenti formali, se gli aratori sono educati. Ma il campo, cioè le menti e i cuori, è così dissodato in malo modo, tanto che i giovani sono costretti ad inventarsi da soli le intersezioni, arrabattandosi, come sono capaci. E cresciuti recriminano per ciò che è stato loro negato.

"La storia umana - scrisse Herbert George Wells - diventa sempre più una gara tra educazione e catastrofe".

"E’ penoso calpestare i resti dell’antica Palmira, in Oriente, e non capire la guida che parla di cardo e di decumano"- confida, e accusa, un diplomato dell’Istituto tecnico industriale. Che comprensione può infatti nascere di una cultura, se non ne afferri le parole fondamentali? E’ un camminare fra i sassi, stupito della durezza di quelle macerie roventi, ma con il pensiero che corre all’aria morbida del sofà dell’albergo.

"Io al liceo classico per la verità ci ho studiato, ma il cardo e il decumano non li conosco ugualmente: non me li hanno insegnati, o forse, ed è peggio, li ho dimenticati senza fatica e senza vergogna"- ribatte una signora, delusa dalla classicità, vuota e insensata, che le hanno fatto ingurgitare sui banchi. Per rifarsi la vita si è infatti dedicata alla chimica, che oggi insegna con passione agli adolescenti. Alla storia, delle donne, è poi riapprodata, mi passa con insistenza dei libri, ci vediamo al cineforum, ma il liceo classico della giovinezza è stato rimosso.

E'questo un frammento del confronto fra insegnanti, durato tre ore, passate in un lampo, in un’aula dell’Iti di Trento, sul tema dei rapporti fra la scienza, la tecnica, l’umanesimo. Anche Gabriele Anzellotti, il relatore, preside della facoltà di scienze all’università, ha da raccontare una storia, ancora diversa, la sua: "All’Iti io ho studiato meccanica, e non sono pentito, anche se il pezzo di ferro assegnatomi non sono riuscito a limarlo come l’insegnante in tuta avrebbe preteso. Mi piaceva la matematica, ma ricordo anche un insegnante d’italiano capace." All’università, fra un esame di matematica e uno di fisica, Anzellotti studierà, da autodidatta, la storia della filosofia di Nicola Abbagnano e quella dell’arte di Giulio Carlo Argan, dalla prima all’ultima riga, e la traversata fu appassionante. I compagni di corso, che al liceo quelle materie, studiandole, avevano imparato ad odiarle, guardavano increduli, come un marziano, l’amico e il suo piacere. Il quale si domandava: "Chi sarà il fortunato, io, il perito meccanico, o il liceale?"

Sono le "vocazioni tardive" quelle più autentiche - commenta subito Pier Giorgio Rauzi, docente di sociologia: sono quelli che scoprono tardi le aree di interesse di cui hanno sentito la mancanza sui banchi di scuola.

La motivazione nasce come reazione al dimezzamento: l’uomo onnilaterale sarà un’utopia, ma è anche un bisogno profondo. I due paradigmi all’improvviso ti appaiono non in competizione, ma come complementari. Spiegare e comprendere, con rigore, e con passione e fantasia, la natura, l’uomo, la società, in questo tempo di cambiamenti veloci e rischiosi.

Nell’Erklaeren e nel Verstehen - direbbero i tedeschi - si devono impegnare sia il filosofo sia l’ingegnere.

E'da un articolo di Umberto Galimberti che l’incontro interdisciplinare, a Natale, prende lo spunto. Gli insegnanti hanno sempre qualcosa di più urgente su cui discutere. Con il risultato, scrive da apocalittico, che al tecnico, nella scuola di oggi "nessuno ha insegnato a pensare con la propria testa": le esigenze specialistiche hanno travolto il sapere umanistico, per cui istruiamo dei lavoratori qualificati, ma non formiamo dei cittadini.

All’incontro con gli insegnanti sono invitati dei cittadini, che furono studenti dell’Iti, a portare la loro testimonianza su quegli anni, visti con gli occhi di adesso, maturi.

Uno racconta che amava, bambino, gli esplosivi dei botti di fine anno. Per tutto l’arco degli studi fu bravissimo in chimica, e si proteggeva, "mosche fastidiose", dalle rare, per fortuna, incursioni della letteratura. Fu all’università, già vicino alla laurea, chissà come, che il mondo gli apparve più grande e complesso delle formule chimiche e matematiche, e si trovò risucchiato, irresistibilmente, negli studi di antropologia e psicologia. E’ una vittoria postuma, inattesa, per quell’insegnante che, contrastato, lo aveva costretto a sbirciare romanzi e poesie, giornali e riviste. Vuole fare l’insegnante di chimica Francesco, questo ragazzo, che tutti ascoltano con attenzione. Ti attendiamo con ansia, e la macchina, forse, grande e grosso come sei diventato, non riuscirà a stritolarti.

Il tema ha anche un’altra faccia, guai a dimenticarlo. "Può un poeta ignorare il secondo principio della termodinamica?"- si domandava Elio Vittorini, un romanziere, sul suo Politecnico, subito dopo la guerra. E prima di lui, nel Settecento, Pietro Verri scriveva che, se comandassero i grammatici, certo scriveremmo tutti carrozza con due ‘r’, ma poi ci sposteremmo a piedi!

Né è solo cognitivo, di paradigmi, né biecamente pratico, di carrozze, il problema del rapporto fra le due culture. Ricorda un ex-studente, ancora giovane, a una sala allibita, del suo insegnante, ingegnere, che sommergeva gli studenti sotto valanghe di formule e numeri, "ma, se cercate educazione - diceva - andate in parrocchia!" E così educava anche lui, altro che no. E di quell’altro che arrivava in aula, firmava, e scompariva: fu il suo modo di educarci, incancellabile, per tutta la vita.

Scorrono i volti al microfono, i ricordi, gli elogi e le stilettate, anche i rimpianti e i risentimenti. Uno strano "collettivo pedagogico" è nato così, quasi per caso, chinato sulla scuola, per un pomeriggio: gli insegnanti di lettere e di scienze, i tecnici di laboratorio, due docenti universitari, e poi fuori, dalla città, il capoturno in fabbrica e il libero professionista, il giornalista e la signora che dirige un’immobiliare. C’è anche chi, da studente dell’Iti, insegna oggi al liceo, chi è ingegnere all’Itea, chi fa l’educatore di ragazzi che nella vita sono stati più sfortunati.

Qualcuno si commuove, e commuove chi ascolta. Chiedono tutti, agli insegnanti di oggi, di scoprire, insieme, un "senso" nel loro lavoro, perché anche i ragazzi possano sperimentare, se vogliono, che anche il loro lavoro, di studenti, è dotato di senso. Perché il filosofo e l’ingegnere insegnano ed educano, entrambi.

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