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QT n. 18, 23 ottobre 1999 Servizi

I “boia chi molla ” e l’ ora di 60 minuti

Tristezze e soddisfazioni di un insegnante.

Una mattina trovo nel registro il programma elettorale degli studenti candidati al consiglio d’istituto nella mia scuola. Ne scorro velocemente alcuni punti. Uno recita: "Ogni proposta votata e sostenuta dagli alunni alla quale il signor preside non darà considerazione, noi reagiremo con l’indizione di uno sciopero."

Un altro: "Decisamente contro la proposta di ore da 60 minuti (che favoriscono alcuni professori, ma si ripercuotono sul profitto degli studenti e non solo)."

L’ultimo è questo: "Organizzazione di gite d’istituto, gemellate ad istituti: prettamente femminili." In calce al foglio cubitale lo slogan: Boia chi molla.

Rimango interdetto, insegnante di storia, da un pugno nello stomaco tale, che rimuovo gli errori sintattici e lessicali disseminati nella piattaforma di lotta. So bene di quel giovanotto di Parma, ricco e famoso, che ha passato la vita a prendere a calci un pallone, che si è presentato in campo con simile scritta sulla maglietta, e ha poi svelato di non conoscerne per nulla l’origine storica. Immagino quindi che lo spunto ai ragazzi sia venuto da lì. Ma sono imbarazzato ugualmente, e impreco, lì in aula, con i miei studenti di quinta, che pure con il volantino non c’entrano nulla. Ma è a loro che ho già fatto cerchiare di verde, sulla cronologia del ‘900, all’anno settanta, "Rivolta di Reggio Calabria", con il seguito di violenze fasciste, di distruzioni e di morti. Subito dopo Piazza Fontana, Pinelli e Calabresi. Ero già insegnante in quell’anno, e le assemblee si infiammavano a quelle storie.

Lo slogan violento colora di sé le richieste più innocenti ed innocue. Mi sento trattato come un venditore di spot storici e letterari, una guida alla caccia di cerbiatte nei boschi, un po’ sfaticato e un po’ delinquente: per ottenere qualcosa da me, dal preside, dagli altri insegnanti, non basta scuoterci con qualche vigore, sono necessari il disprezzo e le minacce.

E’ con questo spirito dunque che quei giovani puntano ad essere eletti in consiglio, a ragionare, a mediare, a dire dei sì e a dire dei no? La rabbia è però intrisa di compassione, e mitigata da un senso di colpa: sono figli nostri questi ragazzi, che incominciano a fare politica in tale modo. La politica siamo noi, in quanto esistiamo al plurale, ripeto spesso citando Hannah Arendt, ma poi noi, insegnanti, genitori, giornalisti, politici, li alleviamo così.

Boia chi molla. C’è il terrore di dover stare a scuola qualche ora di più, tanto poco gli deve apparire utile e interessante. E allora io, che non vorrei usare i giorni proprietà delle singole scuole per potenziare le vacanze già lunghe, e vorrei inoltre che anche le ore degli insegnanti durassero sessanta minuti, gli devo parere un avversario pericoloso. Non è questo il problema, la durata dell’ora, hanno scritto in questi giorni sui giornali locali colleghi che stimo. Invece è un problema, è oggi la cartina di tornasole, perché tutti ne sanno vedere il colore, del modo in cui ci atteggiamo verso i giovani e la società. Per anni, a settembre, finivano a verbale alzate compatte di mani a favore delle lezioni di cinquanta minuti, ma sulla carta vicina, senza battere ciglio, contrattavamo uno stipendio per diciotto ore complete. Lo sapevamo che non poteva durare, e non era giusto.

Marcello Farina, in un convegno di qualche anno fa, quando su, nell’assessorato di allora, si stava scoprendo che la scuola non è fatta solo di muri, affermò coraggiosamente che il "tempo-scuola" degli insegnanti è troppo ridotto. E in molti fra i pochi presenti applaudirono, perché sentivamo che era la voce della parte più consapevole della società, quella disposta, se vogliamo, ad investire e a pagare di più per la formazione, e a tagliare, a rinunciare ad un di più di cemento e, che so, ai nuovi impianti sciistici della Val Giumela e del Monte Roèn. Il silenzio lungo degli insegnanti sul tema ha fatto sì che oggi, dall’alto e dal basso, dall’assessore e dal genitore, i sessanta minuti ci vengano imposti con il tono autoritario della minaccia.

Sarebbe bello, ma oggi non sono i ragazzi a poterci dire in prima battuta come usare questo tempo nuovo del calendario. Loro conoscono quasi solo quello omogeneo e vuoto dell’orologio. Possiamo dire loro però, con franchezza, che in altri tempi altri ragazzi non avrebbero giocato prevalentemente in difesa.

Ricordate il "documento dei saggi", quello elaborato a suo tempo dalla commissione ministeriale, e in cui furono convocati a parlare dei nuovi saperi, profondi e infiniti, industriali e registi, scienziati e pedagogisti, Eugenio Scalfari ed Ersilio Tonini? Fu di Clotilde Pontecorvo, la psicologa dell’università La Sapienza, l’intervento più acuto: "Ricordatevi che a scuola i ragazzi ci vengono per imparare!" E alla platea sconcertata spiegò: "Eh sì, perché finora a scuola gli allievi hanno ascoltato lezioni, e hanno sciorinato parole, scritte ed orali, per essere valutati. L’imparare è affidato a tempi e luoghi, altri e sconosciuti."

Noi conosciamo la difficoltà, e i fallimenti, di questo imparare altrove, lontani dagli insegnanti: è qui che si attende un intervento efficace.

E’ mentre mi crogiolo in queste riflessioni sulla "contrarietà decisa" dei "boia chi molla" alle ore di sessanta minuti, che un mio allievo, a nome dei delegati, mi invita all’assemblea degli studenti per spiegare il senso di quelle parole violente: "Qualche minuto di educazione civica" - dice.

Sono anni che non metto piede in una loro assemblea. Qualche volta ho sbirciato le poltroncine dell’auditorium: i presenti erano gruppi così sparuti che me ne andavo indispettito da quello spreco di denaro pubblico. E per quanto strapazzassi gli studenti delle mie classi, la democrazia dell’assemblea mi pareva in crisi irreversibile. Meglio sopravviveva la democrazia nelle varianti dello sciopero e dell’autogestione: i banchi dell’aula li trovavo vuoti ed ordinati, ma ciò non mi metteva allegria.

Questa volta trovo l’aula magna affollata, e io devo parlare addirittura due volte, prima al biennio e poi al triennio. I candidati seduti al tavolo della presidenza mi paiono realisti e disincantati. L’inventore del "boia chi molla" ha già chiesto scusa della frase infelice. E’ di soccorso che hanno bisogno questi ragazzi, mi dico, mentre vengo invitato alla tribuna, e cerco in sala le facce note di chi conosco.

Sbrigo in fretta la storia di Reggio Calabria. Racconto invece la visita a Trento, di qualche anno fa, del giudice Antonino Caponnetto, il fondatore del pool antimafia, che portò a morire Falcone e Borsellino. Al sud, disse agli studenti di allora, ci sono mafia e camorra, la violenza affascina e paga. Ma ci sono ragazzi che a quella violenza si oppongono: chi riesce ad approdare alla scuola media superiore è quasi salvo dal rischio di essere risucchiato in quella cultura di morte. E’ a quei giovani di Palermo, di Reggio, di Napoli, che dovete sentirvi vicini, per provare a rieducare i vostri insegnanti, che di scosse hanno bisogno. Ed è possibile farlo: sull’autobus per Montevaccino ho visto una classe intera pagare il biglietto, andata e ritorno, e un adulto commentare quel comportamento quasi commosso.

L'assemblea finisce prima del tempo: tutti se ne tornano a casa. Io propongo ai miei studenti di fermarsi ancora, a leggere un articolo di giornale. Si fermano in quindici, e così anch’io torno poi a casa contento.

Ma l’ottimismo a scuola non può averla vinta in nessuna giornata. La sera vengo a sapere che un genitore di un bambino di Trento ha minacciato una raccolta di firme per cacciare da scuola i marocchini, perché uno di questi ha preso a calci lo zainetto del figlio. Il quale però da giorni lo chiamava "marocchino di merda" - ha raccontato piangendo, e in un italiano stentato, il piccolo africano distruttore di zaini italiani.

Lo scorso anno, in quella scuola, un’insegnante di sostegno assisteva i bambini stranieri. Quest’anno il sostegno è stato soppresso, tanto quei genitori non si sognano di protestare: il loro lavoro è squartare bestie ad orari impossibili, che poi noi mangiamo trasformate in bistecche, e i loro bambini crescono a scuola abbandonati a se stessi. E ad ascoltare un altro genitore trentino che, davanti ai bambini di una classe intera, sostiene che i marocchini andrebbero tutti gasati.

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