L’umanità offesa
In un convegno a Trento, tutta la difficoltà di spiegare le grandi tragedie del nostro secolo.
Sono passati trent’anni, ma Sophie, l’anziana musicista cattolica, si rivolge ad Isaac, l’ebreo russo sopravvissuto al campo di sterminio nazista, in un tono ancora fortemente risentito: "Vedo che non potrai mai dimenticare che io sono polacca!"
Gli incubi da cui Isaac non riesce a liberarsi, e le parole esasperate che, pur amandosi, l’uomo e la donna si scambiano, sono la prova che anche il non poter dimenticare è un dramma pesante. E’ l’oblio che permette agli individui di sopravvivere, pur senza rinunciare alla memoria, la quale è a sua volta necessaria all’umanità per sopravvivere criticamente.
La dialettica fra necessità della memoria e necessità dell’oblio, fra bisogni dei singoli e bisogni dell’umanità, trova una risposta nell’eros: Isaac e Sophie fanno l’amore, anziani, in silenzio. E forse solo il linguaggio del cinema, in questo caso di "The doors of memory", di Ian Rosenfeld, sa rappresentare, con distacco critico e con coinvolgimento emotivo, il linguaggio gestuale dei corpi, e comunicare il messaggio antropologico cui essi tendono.
Il convegno storico su "L’umanità offesa: stermini e memoria nell’Europa del Novecento" è ruotato attorno a questo interrogativo: è possibile narrare e spiegare il ne-fandum, il male assoluto? Gli storici hanno cominciato a districare, fiduciosi, con l’arma della ragione, i problemi: il rapporto fra nazismo e stalinismo, fra lager e gulag; il ruolo avuto negli stermini dalle persone, cioè dai carnefici, dalle vittime, dagli spettatori; la ricaduta che quegli orrori hanno avuto sulla cultura, la filosofia, il diritto, la politica, la teologia, oltre la storiografia.
E si sono macerati sul tema della comparabilità fra Hitler e Stalin: qualcuno più disposto a vedere le somiglianze (Koenen, Petersen, Galasso), altri a vedere le diversità (Hirschfeld, Gerlach, Bettanin). Qual è la differenza fra il far morire di fame un bambino kulako, e il far morire di fame un bambino ebreo? - è la domanda retorica di Courtois. A cui si ribatte che se nel nazismo c’è coerenza nel passaggio dal razzismo teorico alla pratica criminale, c’è invece contraddizione fra l’ideologia comunista e il terrore instaurato da Stalin in Unione Sovietica.
Ma in questo modo agli storici Stalin appare attraverso la maschera irrazionale dell’enigma, una parola cioè di fronte alla quale l’arma della ragione storiografica si rivela spuntata.
Carnefici e vittime sembrano parole, e condizioni umane, più chiare, fino a quando non si fa notare che nel gulag soprattutto, ma anche nel lager, la vittima può diventare carnefice, e viceversa. Nella lingua italiana è addirittura inadeguata la parola "spettatori", che traduce l’inglese bystander, ad esprimere quel groviglio di situazioni, la "zona grigia", che vanno dalla complicità attiva all’indifferenza, all’ignoranza di fronte al massacro. E lo stesso concetto giuridico di "genocidio" non ha un significato univoco, tanto che compare nel titolo tedesco del convegno, ma non in quello italiano.
Quando si maneggiano le parole, il più a suo agio, drammaticamente, è certo il critico letterario. Già Elie Wiesel ha affermato: "Chi non ha vissuto la situazione non la conoscerà mai. E chi l’ha vissuta non la svelerà mai. Mai sul serio, mai fino in fondo." E Carlo Ossola porta un affondo radicale alle pretese conoscitive e formative della storia. La poesia rimane l’unico documento citabile: cosa sapremmo del gulag senza Solgenicyn, e cosa sarebbe il lager senza Primo Levi?
Giuseppe Giarrizzo aveva rivendicato allo storico l’alta funzione di educatore civile e politico, e aveva accusato i post-moderni di rinunciare a dare un senso alla storia. Per Ossola la crisi della storia è ormai senza ritorno: solo la letteratura può salvare la memoria presso i giovani. Persino il diario, il frammento strappato si manifesta impotente. Su un graffito di Auschwitz troviamo scritto: "Sappiate ciò che è successo. Non dimenticate mai. E ciò nonostante non saprete mai."
Lo stesso Gustavo Corni, che pure ha difeso con passione le ragioni della spiegazione storica, ha definito irresolubile il dilemma se la straordinaria attività culturale, artistica, musicale, organizzata dagli ebrei nel ghetto di Vilna, durante l’occupazione tedesca, si possa definire addormentamento delle coscienze ad opera delle élite, o un’impresa di fronte alla quale restare ammirati.
In Austria si progettavano la deportazione e la sterilizzazione degli zingari, di quegli zingari, ha affermato Freund, che erano invitati a suonare il violino al matrimonio degli stessi iscritti al partito nazionalsocialista.
Dopo Auschwitz persino Dio è in pericolo, ha ricordato il teologo Manemann, citando Hans Jonas. Si potrebbe aggiungere, con Paolo De Benedetti, che, dopo la perfezione indicibile che il male ha raggiunto con Auschwitz, la risposta per un credente è la lite con Dio, il riv, con vocabolo ebraico. O il riconoscerne la contrazione, la non onnipotenza, l’esilio dal mondo, lo zimzum.
Sono questi, dei "doppi pensieri", i momenti più elevati del convegno, quelli che rinunciano alla secchezza univoca della verità, e inducono i partecipanti, e domani i lettori degli atti, ad arrovellarsi ancora, senza stancarsi.
Diego Quaglioni ripropone, attraverso il carteggio fra Hannah Arendt e Karl Jaspers, le "incertezze" dei diritti umani nella società secolarizzata, la tensione fra legalità e giustizia, fra forza e diritto, fra diritto naturale e diritto positivo. A proposito di Eichmann, il criminale nazista catturato e processato in Israele nel 1962, scrive la Arendt: "Qui si devono giudicare le sue azioni, non le sofferenze degli ebrei, non il popolo tedesco o l’umanità, e neppure l’antisemitismo e il razzismo."
E Jaspers le risponde: "Emettere una sentenza in una questione di così immensa portata è compito dell’umanità, non di un singolo stato nazionale", proprio perché, come la Arendt riconosce, "ciò che egli ha fatto riguarda tutti voi in ugual misura, non soltanto noi." Ma se "lo sterminio fisico degli ebrei era un crimine contro l’umanità perpetrato nel corpo del popolo ebraico", dov’era, dov’è, l’umanità consapevole di questa offesa universale subita ad opera di carnefici, porzione di umanità pure essi?
Giorgio Cracco, il direttore dell’Isig, come antidoto agli integralismi e alle guerre che sono ancora fra noi, ha rivolto un invito pressante ad educare non all’idea di appartenenza, ma all’idea di umanità, di genere umano. Ma Karol Modzelewski osserva che la funzione della storia, l’esito della ricerca, è piuttosto quello di scoprire le diversità fra gli uomini.
Anche questa è un’antinomia irrisolvibile: dobbiamo assomigliare e dis-assomigliare, essere dentro e essere fuori, essere noi stessi e essere altri. Abbiamo bisogno di un’identità forte che dà sicurezza e di un’identità debole che la mette in crisi. La storia del popolo ebraico, in perenne tensione fra il particolare e l’universale, è una provocazione per tutti.
Ai dolorosi dilemmi si può far fronte riconoscendo, faticosamente, la complementarità dei processi di unificazione e differenziazione, capace di evitare sia l’omologazione sia l’incomunicabilità delle culture. Forse c’è bisogno sia della storia sia della letteratura e dell’arte, potenti e limitate, per far fronte all’interrogativo di Simone Weil: "Possiamo anche battere militarmente Hitler, ma se non cambiamo la nostra idea di grandezza, niente potrà impedire in futuro a un adolescente sognatore di identificarsi, nella solitudine della sua stanza, con la grandiosa immagine del Fuehrer". Anzi, non bastano le discipline scolastiche, perché la crisi che stiamo vivendo investe i valori costitutivi della modernità, che non è fatta soltanto di scuola. A proposito dei totalitarismi però, i lager e i gulag, che hanno insanguinato questo secolo, non ci è chiaro se della modernità sono il frutto tossico, o il suo enigmatico tradimento.