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QT n. 2, 23 gennaio 1999 Servizi

Nella Belgrado di Milosevic

Diario di viaggio nella capitale serba

Daniele Sighele

La Bosnia sotto la neve. Parto di sera, in pullman, per Belgrado. Lascio una Prijedor bianca e chiara, nonostante il buio della notte, nonostante la neve sporca delle strade. Nevica ed il biancore se ne sta sugli alberi , ritaglio caduto dal cielo, a volte velato e leggero come un ricamo, a volte pesante dell’essenza dell’acqua.

Lascio una Prijedor candida, di un candore che solo la natura può a momenti darle: la leggerezza dei prugneti in fiore dura alcuni giorni, forse quasi una settimana; la neve sospesa in cielo, in quell’ultimo sforzo dei rami, resiste alcune giornate, ma a volte è solo questione di ore. L’illusione passa subito in questa città imbrattata e violentata fin nelle intestina dall’uomo e dalla sua pulizia etnica. Le vittime che non sono qui fanno sentire il loro respiro, le vittime che sono qui ne sono parola e specchio

Il confine. Sono quasi le quattro di notte. Guardo fuori dal finestrino e mi chiedo insistentemente dove sia il confine tra Bosnia e Federazione Jugoslava. Lo abbiamo già passato? Aspetto di trovare un ponte ed un fiume: la Drina. So che dovremmo esserci quasi, ci sono già passato qualche mese fa, ma nella mia testa si insinua l’erroneo pensiero che non ci sia alcun confine: nella Republika Srpska (una delle due entità che costituiscono la Bosnia-Erzegovina) si gioisce e spara per le vittorie a basket della nazionale jugoslava. Qui si sentono come un paese unico ed allora il confine non solo non è necessario, ma non ci deve proprio essere. La stessa cosa accade tra i croati dell’epurata ed ormai etnicamente uniforme Erzegovina ed i croati di Croazia. La Bosnia unitaria è ancora purtroppo solo un ideale, possibile ma pur sempre un ideale.

Abbiamo adesso abbandonato il corrucciato paesaggio bosniaco e siamo risucchiati in un’enorme pianura. La neve riflette un velato grigiore, tempestato dalle luci pacchiane di mafiosi distributori.

Al nono piano, in centro a Belgrado. Dormo in un monolocale al nono piano di un grattacielo in centro a Belgrado. Dalla finestra si può vedere la facoltà di Filosofia da dove, oramai due anni fa, era partita la protesta degli studenti che per 119 giorni avevano manifestato contro il regime di Milosevic.

Questa mattina ci siamo svegliati con folate di vento che insistevano per entrare nella nostra piccola stanza. Si insinuavano sotto le porte, facevano scricchiolare le finestre. Quasi che il vento volesse scacciare da quassù l’uomo, spaventandolo con i suoi lamenti. Guardo fuori dalla finestra tutta imbottita di stracci perché non entrino spifferi d’aria. Una bidella pulisce il cortile laggiù, tra i tetti imbiancati. Non vedo strade, le coprono gli edifici di fronte, ma sento l’odore, il fumo ed il rumore della città che si muove sotto questo sole pallido di dicembre. La bidella dal grembiule blu continua con i suoi movimenti lenti a raccogliere mucchietti di spazzatura. Lenta come questa città, se vista da lontano, lenta come il fondo del caffé turco che si deposita nella tazzina. Questa città è lenta e metropoli, lenta ed energica, lenta e violenta, disperata, rassegnata. La bidella se ne è andata ed il cortile è rimasto per un attimo solo con i suoi piccioni prima di essere invaso dalle urla dei bambini.

Ugovor o radu. Danjiela è studentessa di archeologia presso la Facoltà di Filosofia, a Belgrado. Mi parla accovacciata in un’ampia poltrona. In sottofondo la musica dei Diziplin a Kitschme ( letteralmente disciplina per la spina dorsale, forse metafora dei molti compromessi a cui sono obbligati a scendere negli ultimi anni i belgradesi); la musica è energica, ma il viso di Danjiela è rassegnato: "Cerco di mantenere una mente sana, mi sento svuotata e dopo il fallimento della nosra protesta di due anni fa mi sembra non ci sia niente da fare contro questo regime. Il popolo serbo è ridotto ad essere un gregge di pecore anestetizzato con la subcultura del turbofolk. Cerco di non essere coinvolta nella fobia collettiva. Però è difficile, perché tutto questo non è un qualcosa di lontano, a cui tu possa girare le spalle. E’ vicino, e colpisce ogni giorno la tua vita privata. Siamo controllati in tutto. Nel mese di maggio è stata approvata una riforma dell’Università che in pratica ne riduce in modo radicale l’autonomia rispetto al governo. I professori, per non perdere il posto, sono stati obbligati a firmare, nonostante ne avessero già uno, un nuovo contratto di lavoro, che dai più è stato visto come una sorta di dichiarazione politica a favore del regime .

A Lettere ed a Sociologia hanno firmato in molti, ma a Filosofia e Storia 74 professori - più della metà - si sono rifiutati di farlo. Non so se il prossimo semestre saranno ancora in classe a fare le loro lezioni, non so nemmeno se ci saranno i prossimi giorni. A Novi Sad sono stati assoldati dei buttafuori alle porte dell’Università per bloccare gli eventuali tentativi dei professori espulsi di tornare ad insegnare. A Belgrado, lo scorso venerdì alcuni docenti che si erano rifiutati di firmare e che erano stati per questo espulsi hanno approfittato della calma del fine settimana per tornare e prendere le cose ed i libri che avevano lasciato nei loro uffici. Ma se vanno via loro andrò via anch’io, non avrebbe nessun senso rimanere. Per intanto non mi resta che tentare di rimanere sana dentro".

Ascolto le parole di Danijela e mi chiedo come si possa essere arrivati a questo punto. Belgrado soffoca, alcuni degli occhi ancora aperti sulla coscienza della Serbia sono ormai violacei per i colpi subiti. La stampa indipendente viene colpita, resiste solo la radio "B92", protetta da un premio ricevuto da MTV e dall’attenzione della comunità internazionale.

Si percepisce la disillusione degli studenti. La loro azione è sempre più pura odpor, mera resistenza, come è scritto sotto il pugno chiuso, nero su bianco, simbolo della loro protesta. Il potere è così lontano, le strade per arrivarci inaccessibili e la mancanza di alternative nella societa’ civile disarmante.

La legge. Articoli 108 e 123: limitano l’autonomia delle università stabilendo che rettori e presidi di facoltà siano di nomina governativa.

Articoli 109 e 122: viene rafforzato il potere di rettori e presidi di facoltà dando a loro "i diritti ed i doveri di un direttore di azienda statale, salvo diverse disposizioni di legge".

Articoli 128 e 131: creano dei nuovi consigli di gestione, con membri di nomina governativa, a cui vengono delegati i poteri prima esercitati dai consigli eletti in seno all’università. I membri di questi consigli possono essere rimossi in ogni momento dal governo e non vi è nessun potere, nemmeno propositivo, da parte della classe insegnante.

Articolo 18: la legge autorizza il governo a chiudere le università pubbliche a sua discrezione.

Articolo 165: "gli impiegati dell’università sono tenuti a firmare un nuovo contratto di lavoro entro 60 giorni dall’entrata in vigore di questa legge".

Il ballo del Kolo. Ogni domenica, in uno spiazzo del parco di fronte alla fortezza di Kalemegdan, si balla il Kolo. Si abbandona l’atmosfera del viale pedonale Knez Mihailov dove molti passeggiano guardando le vetrine dei negozi Stefanel, Adidas, Nike e dove i nuovi modelli di Rollerblade, grazie ai loro colori globalizzati, riescono a superare, o meglio ignorare, qualsiasi situazione, regime o opportunità politica.

In questo parco l’atmosfera è differente. Forse è la massa indolente delle acque della Sava e del Danubio, che proprio sotto la fortezza di Kalemegdan si incontrano, a risvegliare forti gli odori ed i profumi dell’est. Un signore sulla sessantina, alto, folti baffi bianchi, fisico possente ma un po’ appesantito, suona il clarinetto. Contratta il costo della canzone con chi desidera passare il pomeriggio danzando il kolo e poi, intascati i dinari jugoslavi, con un cenno della testa indica al contrabbassista di iniziare a suonare. Quest’ultimo si mette la sigaretta non ancora finita tra le labbra ed inizia a far cadere lente ed ordinate le dita, sprigionando un suono profondo e ventrale. Tutt’attorno un grande girotondo comincia lentamente a muoversi. I busti statici, se non per un movimento leggermente in avanti ed indietro.

Sono i piedi a muovere rapidi i loro piccoli passi. I danzatori sono quasi tutti anziani: una signora grassoccia e legata nei movimenti, un vecchietto con un giubbotto di pelle nero che stringe tra le braccia due giovani cinquantenni e molti altri. Tra tutti la più elegante è una signora tinta di biondo, con un berretto di lana ed un vestito blu cielo che risalta quasi fosse una decaduta stella del cinema in quel mare di colori scuri. Si fermano alcuni distinti belgradesi, cappotto grigio, sciarpa bordeaux per riparare la gola, colbacco o beretka (una specie di basco) neri. Si fermano anche alcuni ragazzi zigani con la loro tromba sotto braccio, scherzano un poco, accennano a qualche passo di danza e poi discutono su dove convenga loro fermarsi per suonare. Non si fermano invece i ragazzi con capelli corti e tirati indietro con al loro fianco bambole dal trucco forte. Non si fermano e ridacchiano pensando sia sufficente camuffarsi nei negozi della via Knez Mihailova per nascondere la propria balcanità. Ma il Danubio lento alle loro spalle continua a trascinare i loro destini intricati fino al Mar Nero.

Le chiatte della riva destra della Sava. Finalmente sono sceso dalla collina di Belgrado fino al punto nel quale la Sava e il Danubio si incontrano, fino al punto nel quale i gabbiani sfruttano il gioco di corrente delle due acque confluenti e riposano galleggiando senza dover resistere all’inevitabile discendere del fiume. Per arrivare fino a qui ho dovuto attraversare il Branko Most, trafficato ponte che collega Beograd a Novi Beograd.

Alla riva destra della Sava sono ancorate enormi chiatte: alcune sembrano ancora utilizzate, altre ormai sono avvinghiate, sembra da secoli, alla riva. Le lunghe corde in metallo impediscono loro il solo pensiero di riuscire ancora a navigare. Non sono più imbarcazioni ma solo protuberanze arrugginite della terra ferma.

Non sono però deserte, qualcuno ci vive. A tratti si puo’ sentire il profumo di un pranzo, ci sono vasi di fiori, scrutando gli oblò si possono intravvedere sagome di figure umane. Un cane abbaia e si incammina fino al cancelletto sulla passerella che impedisce agli estranei di entrare. Una donna sbuca dal ventre di una chiatta con una pentola che scotta, la appoggia su una superfice di metallo e chiama il marito. Forse la colazione. Mi ricordano le mendicanti che ho visto ieri all’imbrunire, vicino alla Ruzica crkva. Raccoglievano in un sacchetto di plastica le piccole icone che avevano cercato di vendere durante il giorno e si incamminavano, coperte di tutta la loro lana scura, con un passo stanco. Solo un attimo per vedere il sole scendere, ultima e forse unica bellezza a loro concessa.

Seduto su di una panchina vicino alla riva del Danubio penso a queste esistenze marginali, pronte a salpare, andarsene, lasciarsi trascinare via dalla corrente. Molti di loro sono profughi dalla Bosnia: li riconosci, trattati con disprezzo dai cittadini, da chi a Belgrado ha sempre vissuto. E’ in questa difficile convivenza che lo stereotipo della decantata unità di tutti i serbi si frantuma e lascia intravvedere tutte le sue ipocrisie.

Se non fosse per il continuo rimuginare della città, il rumore sarebbe interrotto solo dalle urla dei gabbiani che a volte si alzano tutti in volo come un’enorme vela bianca lasciata libera nel vento, per poi posarsi nuovamente qualche attimo dopo; qualche chiatta, in mezzo al fiume, scorre via veloce, nonostante le sue forme goffe, e qualche piccola barca di pescatori si allontana dirigendosi verso la riva sinistra del Danubio, dove la vegetazione è più fitta.

Chi e’ il colpevole? Lasciando in pullman Belgrado guardo un’ultima volta la stazione dei treni ed il grande deposito per materiale ferroviario in disuso. Una strana raggiera di binari, tutti diretti verso un unico centro, convergenti. Creano un decadente fiore di vagoni e locomotive. Estremo saluto di questa città prima del suo collasso.

Dall’alto del mio finestrino osservo piccole scene familiari automobilistiche. Il ragazzo, la propria madre ed il fratellino; i due amici; ragazzo e ragazza e molti altri. Li osservo passare, superare e scomparire dietro al sedile di fronte al mio; con gli occhi sbarrati, a cercare la risposta a una domanda che già prepotentemente mi si era imposta questa mattina: "Ko je kriv?", chi è il colpevole?

Ancora nelle orecchie l’urlo del giovane bosniaco, profugo a Belgrado, nel film "Bure Baruta" (veritiero e critico ritratto della Belgrado di questi anni): erroneamente ritenuto colpevole di furto, viene rincorso e braccato come un cane dai vicini di casa e preso poi a sassate. Bloccato da una rete che lo spinge verso la probabile morte, urla disperato: "Ja nisam kriv", io non sono colpevole. Eppure paga con la vita, come molti altri hanno pagato in questa polveriera balcanica per la propria incolpevolezza.

"Ko je kriv?", domanda fondamentale in un paese nel quale la classe dirigente agisce contro il proprio popolo, che da incolpevole diviene colpevole seguendola con animo passionale. Il senso di colpa emerge e viene esasperato fino a trasformarsi nella fobia del tutti contro uno, del complotto internazionale.

Sto rientrando in Bosnia sempre più consapevole che chi ha deciso negli anni passati, e in parte decide tutt’ora, sulla sorte di questa terra resta alle mie spalle. E’ la grande eminenza grigia che vorrebbe rimanere il più nascosta possibile a gestire le vite degli altri ma la cui sete di potere lo spinge sempre più ad esporsi e ad una fobia d’assedio.

Pochi giorni fa sono stati allontanati dalla loro carica alcuni alti comandanti militari fino ad allora ritenuti uomini di fiducia di Milosevic. Sono stati rimpiazzati da persone che hanno forti legami personali con il presidente e sua moglie.

Questo è forse un segno di debolezza, ma è difficile che in questa situazione possa emergere ed imporsi un’alternativa credibile e democratica.

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