In famiglia fino alla fine
Malati gravi che vogliono curarsi a casa; anziani e disabili che non si rassegnano al ricovero: un desiderio realizzabile?
Giuliana è una signora di mezza età conosciuta quattro anni or sono e con la quale mi è capitato di riparlare nei giorni scorsi. Già allora aveva i suoi bei problemi: per colpa di una sifilide ereditaria ci vedeva molto poco ed aveva una muscolatura particolarmente debole che la costringeva a stare spesso in carrozzella; dopo di che è sopraggiunto un tumore, che a quanto mi dice le ha intaccato un seno e alcune vertebre. In compenso - scherza - è almeno dimagrita: "El cancher - dice nel suo dialetto lombardo - l’è ‘n bravo fioeu: prima de ciapàrme ‘l me fa bèla".
Giuliana, che vive da sola, si è trasferita recentemente da Brentonico a S. Sebastiano, una frazione di Folgaria, per via dell’aria buona, di cui ha un gran bisogno: un posto bellissimo, dove "ci sono più caprioli che cristiani", ma dove però si sente completamente abbandonata.
Per quanto riguarda le cure mediche, non ha di che lamentarsi; quello che le pesa è la mancanza di un’adeguata assistenza domiciliare, insomma di un aiuto per badare a se stessa e alla casa, dato che di ritirarsi in una casa di riposo non vuole nemmeno sentir parlare. "Ma non posso permettermi - spiega - tutto l’aiuto di cui avrei bisogno. Fra pensione INPS e assegno di accompagnamento il mio reddito si aggira sui due milioni, metà dei quali se ne vanno in affitto e riscaldamento, e poi le spese per il telesoccorso, eccetera. Di assistenza domiciliare ho due mezze ore la settimana, e qui a Folgaria mi manca anche il sostegno dell’obiettore del Comune, che invece mi era stato assegnato sia a Brentonico che, ancor prima, a Rovereto, per aiutarmi ad uscire di casa. Tutte le mie richieste al sindaco non hanno avuto risposta".
Al di là del caso specifico, questa vicenda ci suggerisce due domande: fino a che punto è possibile, per un malato grave o addirittura in fase terminale, curarsi restando a casa propria?
E poi: al di là dell’aspetto terapeutico, i servizi di assistenza domiciliare previsti per chi (malato, anziano o disabile) vive da solo, sono sufficienti a garantire a queste persone una decente qualità della vita?
Il primo interrogativo è diventato di attualità da pochi anni, in concomitanza con una crescente tendenza a recuperare, anche e soprattutto quando la morte si avvicina, la dimensione intima della propria casa, dei propri familiari, delle proprie cose. Ma anche chi è malato senza più speranze, chi non ha più bisogno di frequenti interventi iper-tecnologici che solo l’ospedale può garantire, necessita comunque di continue attenzioni di tipo infermieristico e di terapie palliative aventi lo scopo di attenuare il dolore fisico. In sostanza, per poter tenere in casa un paziente senza più speranza (nell’80% dei casi si tratta di malati di cancro), occorre non solo una famiglia i cui membri si alternino nell’assistenza, ma anche una "rete" organizzata di operatori che comprenda il medico di famiglia, l’infermiere, dei volontari e, a volte, uno psicologo. In mancanza di questi appoggi, l’assistenza diventa terribilmente difficile, ed anche molto onerosa in termini di costi.
Negli ultimi dieci anni queste "reti" sono sorte in modo informale un po’ dovunque in Italia, soprattutto perché si è capito che il ricovero in ospedale è più costoso per le finanze pubbliche; quel desiderio di "intimità" di cui prima si diceva, in realtà non è ancora il sentimento prevalente fra i malati gravi e i loro familiari: l’ospedale ti dà più fiducia, e l’essere dimessi - quando non si è guariti - viene comprensibilmente percepito come una ammissione di impotenza della medicina di fronte alla malattia: "Mi mandano a casa perché non c’è più niente da fare". E poi, se si ignora l’esistenza di quelle "reti" di sostegno, è legittimo pensare che tenere in famiglia un malato terminale sia un’impresa molto ardua.
Altri elementi intervengono a complicare le cose. Giuseppe Parisi e Fabrizio Valcanover, due medici di base che si interessano particolarmente a queste problematiche, rilevano che in Italia il mondo medico non ha grande considerazione per la medicina palliativa, quella cioè che non si propone di sconfiggere la patologia ma di eliminare il dolore fisico e di migliorare quindi la qualità della vita del paziente: "Da noi il dolore fisico è poco considerato - dice Valcanover - In fondo c’è l’idea che un po’ bisogna comunque soffrire. Di conseguenza, chi si occupa soprattutto di dolore non gode di molto prestigio".
E Parisi: "Di fatto, negli ospedali italiani, le cure palliative si fanno ben poco: spesso si continua a intervenire anche quando è evidente che non c’è più speranza. Altrove le cose funzionano diversamente. In Inghilterra ad esempio esistono dei reparti (i cosiddetti Hospices) riservati ai malati terminali (che possono personalizzare la stanza con i loro oggetti in modo da ricreare un ambiente più familiare), nei quali ci si preoccupa anzitutto di eliminare la sofferenza fisica. E’ una soluzione che può lasciare perplessi (sa di ghetto, di fabbrica della morte) e poco adatta alla mentalità italiana, ma per lo meno il problema viene affrontato".
Ma torniamo alle "reti", di cui in Trentino non esiste alcuna esperienza: "La nostra regione, assieme alla Basilicata, è l’unica in Italia ad esserne priva, mentre nella sola Emilia-Romagna ce ne sono una ventina" - ci dice la dott. Letizia Rimer, medico anestesista volontaria presso la Lega per la lotta contro i tumori. Otto anni fa l’allora assessore provinciale alla Sanità Lorenzini istituì una commissione per studiare il problema, e recentemente, a Trento, si è fatta una sperimentazione, ma non si è andati oltre.
Di concreto, esistono degli incentivi ai medici di base che seguono il malato a casa. E ancora, molto personale medico e infermieristico è stato preparato a quel compito con corsi di formazione; e recentemente - a quanto mi dicono - si è notato un miglioramento di efficienza in particolari non secondari, come una più rapida fornitura di certi presìdi (i pannoloni, ecc.) fondamentali per un malato curato dai familiari. C’è infine il sostegno rappresentato dall’attività di associazioni quali la Lega per la lotta contro i tumori (vedi scheda). Manca però una struttura organizzata che copra tutte le necessità del paziente e della sua famiglia
Ma se anche in Trentino sorgesse una struttura per seguire a casa i malati terminali - chiediamo al dott. Valcanover - i medici di base sarebbero disponibili a questo aggravio dei loro impegni?
"Certo, esistono i medici scribacchini che si limitano a compilar ricette e a prescrivere esami; altri avrebbero dei problemi perché sono abituati a tenere la morte lontana dai loro ambulatori. Ma io credo che ci sarebbe comunque la disponibilità di molti, medici e infermieri. Basta vedere, nei necrologi, i frequenti ringraziamenti dei parenti a questo e a quel dottore. Del resto, anche adesso sono numerosi quelli che, sia pure in modo informale, seguono i loro malati a casa..."
L'altra questione, meno drammatica ma che coinvolge un più ampio numero di persone (non solo malati gravi, ma anche anziani e disabili che vivono soli) è quella dell’assistenza domiciliare; il servizio esiste da anni, gestito dai comprensori, da cooperative convenzionate o direttamente dai Comuni. Si parte da un certificato medico e da una relazione dell’assistente sociale che valuta la situazione per arrivare a stabilire il numero di ore che possono essere concesse, tenendo conto sia delle richieste avanzate sia del personale a disposizione. Il servizio (che può riguardare o la cura della persona o la cura della casa) viene pagato in proporzione al reddito, da un minimo inferiore alle 2.000 lire orarie ad un massimo attorno alle 16.000.
"Un buon servizio - commenta Graziella Anesi, della cooperativa Handicrea - ulteriormente migliorato, almeno a Trento, con l’ampliamento dell’orario alle ore serali. Ma con alcuni difetti non di poco conto, a cominciare dall’abitudine di cambiare frequentemente il personale che svolge il servizio presso il singolo utente, con la motivazione che quest’ultimo non deve affezionarsi troppo a chi viene ad aiutarlo in casa. Capiamoci: per me può essere indifferente instaurare o meno rapporti di amicizia con l’assistente domiciliare; ma per certi anziani si tratta dell’unica persona che frequentano, ed è uno che li aiuta a lavarsi e a vestirsi, che gira per casa, che mette le mani fra le loro cose: è importante - mi sembra - che si instauri un rapporto di fiducia e che, inoltre, l’utente non sia costretto a ripetere troppo spesso, con personale sempre nuovo, quella sorta di addestramento indispensabile in questi casi".
Lucia Fogolari, che a Rovereto è impegnata da una vita nel rivendicare il diritto alla normalità dei disabili, ha in proposito un’esperienza significativa: oltre a dover risolvere le proprie difficoltà di movimento, per alcuni anni si è occupata della madre gravemente ammalata, e il servizio di assistenza domiciliare le era indispensabile per sollevarla dalle incombenze domestiche più pesanti in modo da poter assistere la madre. "E in quella situazione - racconta - mi sono vista passare 35 - dico trentacinque - assistenti nel giro di due anni e mezzo. Dicevano che, trattandosi di persone che dovevano occuparsi dei lavori di casa, una valeva l’altra. Un disabile, evidentemente, è una bestia speciale che non ha diritto alla privacy come gli altri. Mi sono addirittura convinta che fosse rischioso fare apprezzamenti positivi sul modo di lavorare di un’assistente: per chi gestisce il servizio, questo significava che si era creato un legame, considerato chissà perché pericoloso, e dunque bisognava mandarmi qualcun’altra. Una mentalità da istituto...
Alla fine, sia per questi motivi, sia per i costi divenuti insostenibili, ho dovuto rinunciare a quell’aiuto e mia madre è finita in casa di riposo, dove è mancata qualche tempo dopo. E adesso a darmi una mano vengono delle amiche".
Un altro inconveniente segnalato da tutti i miei interlocutori è il mansionario troppo rigido del personale impiegato nel servizio: chi ti aiuta a lavarti e vestirti, insomma, non è autorizzato a fare i lavori di casa. "Il problema - dice Graziella Anesi - è che le assistenti domiciliari, che pure sono pagate anche coi tuoi soldi, non dipendono da te: tu non sei il loro datore di lavoro, e questo rende tutto più difficile. Altrove l’organizzazione è diversa: in Olanda, ad esempio, lo Stato quantifica le tue necessità e le traduce in denaro, dopo di che ti arrangi tu ad assumere chi ti aiuta e a dirgli cosa deve fare. E sei tu a decidere se quella tale persona ti va bene o vuoi cambiarla".