Quanto è appetito il vino trentino?
Alla mostra enologica di Verona, Bolzano 7 medaglie d'oro, Trento 0. Le grandi cantine trentine esportano nei supermercati di tutto il mondo, ripianano i propri bilanci, procurano reddito per miliardi agli agricoltori... Eppure il vino trentino rischia di perdere il confronto sulla qualità. Fra i due fatti c'è relazione?
Sono stati i sudtirolesi a fare incetta di premi all'ultima edizione di Vinitaly, l'appuntamento veronese dell'enologia internazionale. E proprio il successo di Bolzano - sette medaglie d'oro - ha contribuito a sottolineare l'impasse di Trento, praticamente rimasta a bocca asciutta (medaglie zero, solo tre menzioni).
Del fatto c'è una prima motivazione: i trentini i concorsi non li vincono perché non vi partecipano. Ma alla successiva domanda - e perché non partecipano? - le risposte si fanno vaghe. Alcune ditte di gran nome dai concorsi hanno solo da perdere ( "Se il Ferrari vince, che notizia è? Se invece non arriva primo..."); ma le altre aziende, dalla scarsa o media notorietà? Non è che non si partecipa perché si hanno poche chanches? Oppure perché la cosa non interessa? Il che rimanda alla domanda di fondo: non è che il sistema vitivinicolo trentino stia perdendo l'obiettivo della qualità?
Adire il vero, la situazione attuale sembra autorizzare valutazioni decisamente ottimistiche. Il settore è in salute, e i 7.500 viticoltori trentini sembrano voler sbeffeggiare le teorie degli studiosi di agraria, i quali si ostinano a sostenere che un'azienda con meno di dieci ettari di vigneto è destinata al fallimento, mentre i nostri hanno poco più di un ettaro a testa, e tirano avanti, magari a part time, ma senza grossi problemi.
Certo, fino a qualche anno fa il Trentino meridionale (Ala, Avio, Vallagarina) arrancava, con i suoi vitigni di Schiava che producevano un vino che non soddisfa i gusti attuali, e con Veccellente Marzemino - quello sì apprezzato, oltre che da Don Giovanni anche dai commensali contemporanei - però prodotto in percentuali troppo esigue; ma ultimamente l'introduzione di Pinot Grigio, Chardonnay, e la rivalutazione internazionale di Merlot e Cabernet hanno ridato sbocchi alla produzione.
Eccolo il punto: il mercato internazionale, la globalizzazione. E come il Trentino, con la sua piccola produzióne, con i suoi piccoli appezzamenti di terreno, con le sue cooperative, vi si inserisce.
Perché nell'enologia i cambiamenti sono stati colossali. Dal lato del consumo: il vino non è più un energetico, non serve più ad accompagnare la fatica del contadino o del muratore; è una bevanda edonistica, si beve perché piace, perché crea atmosfera; e allora il consumo va sui prodotti di qualità: la bionda ti ride in faccia se le apri una bottiglia tappo Corona. Ed epocali sono stati anche i cambiamenti sul lato della produzione: se il consumo cala in Italia e Francia, si allarga, appunto come consumo edonistico, alla Germania, agli Stati Uniti, all'Oriente; e nuovi paesi produttori si affacciano sul mercato: Sudafrica, Australia, Nuova Zelanda, Cile e soprattutto la mitica California. Tutti paesi dalle grandi produzioni, ma dalla tradizione inesistente: a ciò hanno rimediato importando le varietà europee di viti, quelle di origine francese, Merlot, Cabernet, Pinot, Chardonnay... e promovendo un formidabile battage pubblicitario, che propaganda la varietà, ma nasconde l'origine: " Una serata favolosa con una bottiglia di Pinot grigio..." di cui non vi diciamo che viene dal Cile.
Su questa grande onda pubblicitaria si è inserito il vino trentino, con le sue varietà (Merlot, ecc.) internazionali. Un prodotto dal prezzo competitivo, dalla qualità adeguata, commercializzato con aggressiva professionalità: e per tante aziende trentine è iniziato un periodo di tranquillità economica.
Parallela la seconda opzione: puntare anche sulle varietà trentine autoctone (Marzemino e Teroldego), sulla qualità, farsi trainare dall'immagine complessiva del Trentino, dai ricordi dei turisti, vendere non tanto nei supermercati ma nelle enoteche e nei locali.
Insomma, una situazione ideale, o quasi. In realtà i problemi sono dietro l'angolo.
Iniziarne dalla prima opzione, il vino trentino sul mercato globale. E' la scelta operata dalle due maggiori realtà provinciali, la Cavit e la Cantina di Mezza Corona. Una scelta che ha permesso alla Cavit di chiudere - finalmente! - con bilanci in attivo dopo aver stretto accordi con il maggior importatore americano, ed essere sbarcata con società miste in Cina.
Accordi di ampio, amplissimo raggio, superiori alle stesse forze produttive della viticoltura trentina: per cui la Cavit, consorzio per la commercializzazione dei vini delle cantine sociali trentine, si è di fatto trasformata in una società commerciale, che compra e piazza sul mercato mondiale i vini veneti ( "Ma così garantiamo il reddito alle nostre cooperative").
Ancorata al Trentino è invece l'altra grande realtà, Mezza Corona: però anch'essa rivolta ai grandi numeri, per farsi conoscere, per poter competere sul mercato mondiale; e con questa ricetta (e una indubbia managerialità) ha in questi anni fatto affluire i miliardi nella Piana Rotaliana.
E la qualità? "Qualità medioalta " - proclama ad ogni occasione Fabio Rizzoli, il direttore-padre-padrone di Mezza Corona. "Una buona qualità internazionale, un più che onesto vino standard" - precisa Angelo Rossi, direttore dell'Istituto del Vino "ed è comprensibile: sugli scaffali dei supermercati di San Francisco, i vini trentini non sono riconosciuti, ed oltre un certo livello la qualità non paga più ".
Ed è su questo punto che si evidenziano le prime frizioni. "Il nome Trentino arriva fino alla Baviera, oltre non ci conoscono - ci dice Paolo Endrici, titolare della Cantina Endrizzi - La scelta mondiale poggia su basi esili; il nostro vino da supermercato è perfettamente intercambiabile con tanti prodotti dei nuovi paesi: le varietà delle uve sono le stesse, le origini non contano. Basta un sussulto del mercato globale, e noi annaspiamo."
Di qui la logica della seconda opzione: la qualità superiore, le Tutto è reso più complesso dal secondo grosso motivo di frizione, gli assetti proprietari.
In Trentino nel corso degli anni, le Cantine sociali hanno via via eroso gli spazi dei privati: ed oggi al sistema cooperativo fa capo l'80% del settore, e nomi storici della vinificazione trentina, come Dellana, Schirripa, Tedesca, hanno chiuso i battenti.
"E" stata una competizione falsata, dai contributi, dagli incentivi, dall'insieme della politica agricola, decisa non a piazza Dante, ma alla Federazione delle Cooperative " - dicono in tanti.
Questa vicenda si riflette sull'oggi. La competizione è stata feroce anche fra le Cantine sociali (che si sono contese i soci, cioè gli agricoltori che conferiscono le uve), fra le Cantine e la Cavit (il consorzio che commercializza i vini delle Cantine, ma alcune di queste si sono messe a imbottigliare, promuovere, commercializzare in proprio); il tutto ha portato ad un processo di espansione, concentrazione, indubbia crescita di managerialità: oggi il sistema cooperativo ruota attorno ai due grossi poli Cavit e Mezzacorona, più il terzo incomodo Cantina di La Vis. Ma un sistema così aggressivo, coperto politicamente, governato da personaggi capaci e grintosi, rischia di voler imporre i propri obiettivi all'insieme della viticoltura: "Siamo I '80%, decidiamo noi, gli altri si accodino " - è il refrain che senza tanti fronzoli è stato gettato sul tavolo in burrascose riunioni.
Perché il sistema cooperativo - almeno nei due poli maggiori - è tutto proiettato sulla scelta della mondializzazione; e fatalmente tende a mettere in secondo piano la politica della qualità intesa come eccellenza.
"Queste grosse realtà affermano di garantire una qualità media elevata, ed in effetti è vero - afferma Rossi - Ma per un certo pubblico, e in genere per creare l'immagine della cantina e della zona, la qualità media non basta, serve l'eccellenza."
E il discorso si fa teso quando si arriva a particolari tecnici, a prescrizioni come la resa massima per ettaro (la massima quantità di uva ammessa, sottintendendo che vigneti che danno troppo, danno uve scadenti): il Trentino ha una resa alta (150 quintali per ettaro) le grosse cantine vorrebbero spingere ancora questo limite, chi punta sulla qualità - Ferrari in testa - vorrebbe abbassarlo.
"Ci sarebbe spazio per entrambe le opzioni, eccellenza e mondializzazione - commenta Endrici - Ma è lecito temere che, nei fatti, chi è più forte e protetto voglia imporre la sua opzione."
Contro questa lettura si pronuncia Fausto Peratoner, direttore della Cantina sociale di LaVis. Terzo polo della vinificazione cooperativa, ha abbracciate una strada intermedia alle due prima delineate: quantità cospicue (a Lavis fanno capo 750 soci, 800 ettari, 31 miliardi di fatturato) ma rivolte a mercati (quelli europei) e canali distributivi (enoteche, locali, ecc.) tradizionali, con attenzione alla qualità (a Verona ha riscosso tre premi). "Se si fanno gli stessi prodotti degli altri, prima o poi si viene tagliati fuori, per questo il Trentino deve saper differenziarsi, puntare di più sulla qualità. Però - ci dice - questa scelta non. dipende dalle dimensioni: si può essere grandi e puntare sui tanti mercati di nicchia."
Resta il fatto che i disagi e le polemiche non sono solo fatti folkloristici. Nella morsa degli interessi contrapposti è finito l'Istituto Trentino del Vino, sindacato degli imprenditori, sorto cinquant'anni fa (come Comitato Vitivinicolo): una delle istituzioni che poneva il Trentino all'avanguardia, centralizzando la promozione dell'immagine complessiva dei vini trentini, e la tutela del prodotto (controlli sull'uso dei prodotti chimici, sull'origine delle uve, sulle rese per ettaro, ecc.).
Oggi i tre poli della cooperazione, ma anche l'Associazione vignaioli che raggruppa i piccoli produttori privati, contestano L'ITV, al quale intendono sottrarre la tutela, gestendola in proprio attraverso un'associazione da poco costituita, la Trentino Vini. "E' come se Agnelli volesse lui collaudare le automobili, e sottrarne il compito alla Motorizzazione civile - commenta Rossi, che dell'Istituto del Vino è direttore - Non vorrei che la vera finalità dell'operazione fosse un ulteriore aumento delle rese."
"Quello delle rese non è un grosso problema - ribatte Peratoner - E nell'Istituto del Vino noi siamo presenti come nella nuova associazione; solo che non riteniamo che l'ITV attui una politica della tutela adeguata."
Come si vede, uno scontro è all'orizzonte; e riteniamo di darne prossimamente conto. Rimane il problema del vino trentino: che ha un presente roseo (a Vinitaly al padiglione dell'ITV hanno dovuto mettere le catenelle per regolare l'afflusso dei visitatori-compratori) ma un futuro tutto da discutere. "E' concreto il pericolo - afferma Rossi - di voler massimizzare oggi i profitti, a rischio di dequalificare la produzione".