“Perfido”: finita la cuccagna dei patteggiamenti?
Come abbiamo già illustrato ai nostri lettori, il processo “Perfido”, pur spezzettato in vari tronconi, sta andando avanti rilevando due modalità divergenti. Da una parte viene confermata la qualità delle indagini e la solidità dell’impianto accusatorio: nei vari sottoprocessi le accuse, in corte d’Assise, in Appello fino in Cassazione, sono state accolte e confermate, in particolare la più importante, il 416 bis, l’esistenza della associazione mafiosa. Con il che dovrebbero (poi spieghiamo il condizionale) essere spazzate via le varie riserve sull’esistenza della mafia in Trentino e nello specifico in Val di Cembra.
Al contempo, però, il Tribunale e soprattutto la Procura della Repubblica su due aspetti hanno attivato prassi decisamente discutibili: sui patteggiamenti e sulle infermità degli imputati.
Con patteggiamenti al massimo ribasso si sono concordate pene irrisorie a Giuseppe Paviglianiti, Mustafà Arafat, Dario Buffa. Ricordiamo che Mustafà è un picchiatore, autore tra le altre gesta del brutale pestaggio dell’operaio cinese Hu Xupai; e il generale Dario Buffa è accusato di aver fornito al mafioso Domenico Morello (oggi condannato in via definitiva, ma già pregiudicato all’epoca dei fatti) un porto d’armi che non poteva avere, nonchè informazioni sullo stato delle indagini che lo riguardavano. Le pene irrisorie erano possibili in quanto per questi imputati l’accusa aveva fatto cadere l’aggravante dell’associazione mafiosa, anche se Mustafà andava in giro per Lona Lases a minacciare vantando la sua contiguità “con i calabresi”, e Buffa non poteva non sapere per quali reati il compare Morello fosse stato condannato e poteva essere ancora indagato. Cose che seguono una logica di faticosa comprensione.
E difatti la Procura Generale e poi la Cassazione hanno ripetutamente intimato di riformulare le imputazioni. Almeno per Paviglianiti e per Mustafà; mentre sul generale Buffa (accusato anche di aver millantato - agli stessi investigatori del Ros - la propria appartenenza ai servizi segreti) per ora sembra essere scesa una coltre di silenzio sinceramente preoccupante.
Ancora più incomprensibile il riconoscimento dello stato di infermità dei due principali imputati.
Il faccendiere Giulio Carini, accusato di essere l’elemento di raccordo tra la cosca e le più alte istituzioni amministrative e giudiziarie della Provincia, e uscito dal processo grazie a un certificato medico presentato dalla difesa e non sottoposto al vaglio di un perito del giudice o del Pubblico Ministero.
E il capo cosca Innocenzio Macheda, giudicato incapace di seguire coscientemente il processo perfino contro il parere espresso dallo psichiatra consulente del giudice in udienza, anche se nello scorso dicembre (l’atto giudiziario è del 9.12.2024) si esibiva - e per questo è indagato per concorso in estorsione - con cartelli minacciosi di fronte al presidente di un’associazione di volontariato da cui pretendeva dei soldi. Contro quest’ultimo esito semplicemente grottesco la Procura sta presentando ricorso - ci dicono. E ci mancherebbe.
In tale situazione si stanno svolgendo le udienze dello spezzone processuale in cui, orbato della presenza del gran capo Macheda, è rimasto unico imputato Giovanni Alampi, “braccio armato della cosca” scrivono gli inquirenti. “Direttamente subordinato a Morello Domenico”.
Alampi è un sottoposto, talora è un consigliere, ma non è certo una mammoletta. Per illustrare la sua caratura, riportiamo un solo episodio.
Il capo Morello, oltre alla moglie Alessia Nalin, aveva anche un’amante, la polacca Anna Kanska. E Alampi paventava una situazione di pericolo, causata da possibili comportamenti imprudenti della Kanska, ed era pronto a prendere contromisure, che illustrava allo stesso Morello: “Se inizierà a creare problemi, le darà un avvertimento… altrimenti andrà da lei e la ucciderà”.
Riportiamo questo inquietante passaggio perché è opportuno capire con chi abbiamo a che fare, non vorremmo che si allentasse l’attenzione attorno a questa vicenda.

Veniamo quindi all’udienza di fine giugno. In cui, anche per Alampi, si è affacciata l’ipotesi di un patteggiamento. Però si è subito notato da parte della Procura un’impostazione diversa dai casi precedenti, in cui agli imputati venivano proposti sconti di pena colossali, veniva fatta scomparire l’appartenenza all’associazione mafiosa, purché se ne uscissero dal processo, limitandosi ad ammettere un blando “sostegno” all’associazione (fattispecie applicata a chi presta un’auto, non a chi va in giro a minacciare a muso duro, oppure procura un porto d’armi).
Qualcosa è cambiato: non c’è più a capo dell’ufficio il dott. Sandro Raimondi andato in pensione, sostituito dal Procuratore Vicario facente funzioni Patrizia Foiera.
Di Raimondi avevamo apprezzato l’impulso che aveva saputo dare alle indagini, abbiamo criticato invece alcune scelte processuali, tra cui i patteggiamenti generosissimi e la scomparsa dal processo degli imputati eccellenti. Vedremo ora Foiera.
Intanto registriamo come il patteggiamento che i PM stanno discutendo con i difensori di Alampi si svolge su altri termini: ci deve essere un accordo risarcitorio con le Parti Offese e le Parti Civili, e soprattutto l’imputato deve proclamare la dissociazione dall'associazione mafiosa, ma non a parole, bensì attraverso una “condotta collaborativa”. Se il PM si riterrà soddisfatto della collaborazione, darà il via al patteggiamento e alla conseguente riduzione della pena, che comunque non dovrebbe risultare inferiore ai 3-4 anni.
Ad oggi non si conosce la posizione di Alampi, forse restio ad apparire come un collaboratore di giustizia. Vedremo.
Intanto registriamo questa evoluzione della Procura nella gestione dei patteggiamenti.