Scuola e società: 60 anni di storia in Trentino
La politica, la didattica, gli studenti, i movimenti nell’ultimo libro di Quinto Antonelli.
Nelle pagine conclusive della “Storia della scuola trentina” (Il Margine, 2013) Quinto Antonelli ne annunciava un seguito dedicato al secondo Novecento (“La scuola che sopravvive alle macerie, materiali e morali, della guerra sarà oggetto di un altro e diverso volume”), anticipandone un primo indice ragionato. Il libro che realizza quel lontano impegno, edito dalla Società di Studi Trentini di Scienze Storiche, porta a sintesi compiuta una lunga serie di contributi e sondaggi disseminati nella ammirevole produzione dell’autore. Perché, leggendolo e rileggendolo, continuo a trovare originalissimo e sorprendente questo suo nuovo lavoro? Provo a spiegarlo raccontando in estrema sintesi le oltre cinquecento pagine di “Scuola e società in Trentino. Una storia (1945-2006)”.
Dal fascismo al clericalismo
Il primo capitolo è aperto dal contrasto di due personaggi emblematici: Giovanni Gozzer, provveditore agli studi reggente, insediato dal Comitato di liberazione nazionale (CLN) di cui era presidente: autonominato dunque, sottolinea maligno l’antagonista Luigi Molina, provveditore dal 1923 al 1944, interprete per oltre vent’anni delle politiche scolastiche del fascismo nella regione. Il riformista Gozzer, legato alla Resistenza, è l’uomo della discontinuità; Molina si adopera nell’ombra per una continuità col recente passato e sembra presto averla vinta, lui come tanti funzionari dell’Italia fascista in quel cruciale passaggio e negli esiti successivi.
Fallisce una maldestra epurazione, tornano in cattedra senza dover rendere alcun conto presidi, professori, maestre e maestri che in buona parte il fascismo avevano incarnato all’interno e all’esterno della scuola. Molti di loro non erano più gli stessi, disillusi o trasformati nelle convinzioni ideali da quanto era accaduto in quegli anni sconvolgenti. Quelli che erano stati, con maggiore o minore entusiasmo, i responsabili dell’Opera Nazionale Balilla, i conferenzieri del partito dominante e delle sue articolazioni si accingevano a diventare i maestri di democrazia delle nuove generazioni. Su questo nodo della storia italiana ci sarà ancora a lungo e forse sempre necessità di ulteriore ricerca e di riflessione critica. La questione del rapporto tra scuola e eredità del fascismo poté sembrare tuttavia presto sormontata, non solo in Trentino ma qui con particolarissima evidenza, da un altro fenomeno ideologico, l’avvento di un cattolicesimo maggioritario e tendenzialmente integralista. Più incisivo fuori che dentro la scuola, forse; erano l’Azione Cattolica, settori del clero, una parte della Democrazia Cristiana, il settimanale diocesano “Vita Trentina”, con sullo sfondo lo stesso vescovo Ferrari, ad agitare le riemerse parole d’ordine di una scuola cristiana ed autonoma, in opposizione al laicismo e allo statalismo che temevano incombere. I nomi rappresentativi di questa fase sono quelli di don Giulio Tomasini, banditore di una crociata che aveva forti venature di tradizionalismo sociale e di sessuofobia; di don Giulio Delugan, il direttore di “Vita Trentina” noto come alfiere di un cattolicesimo degasperiano e impermeabile al fascismo, del quale Antonelli riscopre le campagne di stampa ossessive a difesa della purezza e contro l’azione corruttrice anche in questo campo dei demonizzati comunisti.
E poi il nome di Remo Albertini, il trentaduenne vicesindaco di Rovereto che diventò presidente della Provincia dopo il trionfo elettorale DC del 1952 (63,8 % dei voti, 17 consiglieri su 26). La sua sorprendente ascesa è attribuibile in buona parte all’impegno in prima linea nell’Azione Cattolica e nell’Associazione Italiana dei Maestri Cattolici (AIMC), sulla linea della riconquista cristiana della società in senso apertamente integralista.
A quattro anni di distanza però, dopo elezioni provinciali dominate in misura ancor più schiacciante dal suo partito, le stesse caratteristiche furono valutate pericolose, procurandogli un’inattesa retrocessione ad altra carica prestigiosa, vissuta non solo da lui come una defenestrazione. Alla guida della provincia Albertini aveva tentato, con una serie di provvedimenti circoscritti, di esercitare le competenze autonomistiche previste dallo Statuto, sollevando forti preoccupazioni nelle stesse associazioni cattoliche che lo avevano supportato. Nei panni di presidente cercava di minimizzare la portata delle sue leggine, ma poi rilanciava apertamente, all’interno del mondo cattolico, una strategia massimalistica di autonomismo confessionale. “Ma alla fine la DC ebbe paura di se stessa”, scriverà molti anni dopo riflettendo sulla sua sconfitta.
Anni Sessanta
Il percorso che portò all’istituzione della scuola media unica (fine 1962), data periodizzante nella storia italiana, fu seguito in Trentino con diffidenza da parte del ceto dirigente locale, “che aveva privilegiato fin dal dopoguerra la scuola postelementare e accarezzato il progetto di farne un modello generalizzabile per i ragazzi dagli 11 ai 14 anni, secondo segmento dell’ordine primario da affidarsi ai maestri”. Centralità della scuola elementare; resistenza a pensare una scuola uguale per tutti; orgogliosa quanto paradossale assunzione della scuola trentina a modello valido per tutta l’organizzazione scolastica italiana erano tutti elementi che configuravano una concezione regressiva sul piano sociale e su quello educativo. All’appuntamento storico con la riforma il Trentino arrivava impreparato. La situazione delle sedi scolastiche era di gravissima inadeguatezza. Scarseggiavano gli insegnanti laureati con la conseguente necessità di un’immigrazione da altre regioni, a dispetto delle velleitarie chiusure localistiche.
Le scuole superiori accolsero gli studenti che uscivano dalla nuova media unica con un inasprimento fuori misura delle bocciature, a perpetuare una selezione inesorabilmente di classe. Antonelli rilegge quella fase irta di difficoltà attraverso un’importante inchiesta del Sindacato Nazionale Scuola Media (SNSM) e recupera dai giornali le voci di un intenso dibattito, tra le quali spicca per lucidità e tensione democratica quella del vicesegretario del SNSM trentino, Giancarlo Tomazzoni, insegnante di liceo, socialista e animatore con altri intellettuali progressisti del circolo Cultura Viva di Rovereto.
Negli anni Sessanta il vecchio Trentino sta cambiando profondamente. È l’epoca della modernizzazione e dello sviluppo, sostenuti da concrete strategie politiche e amministrative. I tre mandati di Bruno Kessler come presidente della Provincia; il nuovo statuto di autonomia regionale che assegna la massima parte delle competenze e delle risorse alle due provincie; il piano urbanistico; la nascita dell’università di sociologia; il sostegno allo sviluppo industriale.
Per quanto riguarda la scuola l’avvenimento più vistoso, insieme al faticoso avvio della media unica, è la riorganizzazione della scuola elementare, non accompagnata da facile consenso. L’istituzione dei centri scolastici e la chiusura delle sedi più piccole ridefiniscono identità e dimensioni comunitarie, ridisegnano il territorio, alimentano inquietudini e proteste.
Intanto si va affermando una scuola superiore di massa con la moltiplicazione delle iscrizioni, in particolare agli Istituti Tecnici. Degli studenti la ricerca di Antonelli segue da vicino le espressioni culturali, attraverso la lettura attenta dei giornalini studenteschi che configurano una mappa discretamente fitta negli istituti superiori delle città (a Rovereto dal “Palco” al “Mulo”, dal “Semaforo” al “Girasole”, a Trento dal “Giro al Sass” ad “Alternative” e altre testate tenaci o effimere). Tiene presente l’esperienza parallela alla scuola di un associazionismo cattolico di tipo nuovo, quello di Gioventù Studentesca (GS) a Rovereto, animata da don Roberto Marchesoni sulle orme del milanese don Giussani, a Riva con accentuazioni in parte diverse, a Trento vicina alle tematiche del cattolicesimo di sinistra e ispirata da don Piergiorgio Rauzi a una grande apertura culturale. Siamo ormai alle soglie del Sessantotto.
La ricostruzione che ne viene data in questo volume sfugge all’epica rivoluzionaria di Sociologia, non perché se ne sottovaluti l’innegabile centralità, mi sembra, ma piuttosto per non ricalcare narrazioni note e cristallizzate. L’attenzione è rivolta principalmente agli studenti medi, alle loro concrete rivendicazioni, alle forme di agitazione adottate, quasi caso per caso, istituto per istituto.
Per la capillare documentazione necessaria Antonelli attinge per quanto possibile al Centro di documentazione intitolato a Mauro Rostagno presso il Museo Storico, nato da un’intuizione di Vincenzo Calì, costruito con il versamento di un grande numero di materiali da parte di protagonisti e testimoni, rimasto però più un magazzino che un luogo di ricerca.
Quinto scrive di un “breve Sessantotto degli studenti medi”, riferendosi alla precoce perdita di autonomia del movimento e alla successiva e intrusiva politicizzazione. Forse sarebbe più utile distinguere due fasi di uno stesso prolungato evento, al cui interno una continuità di fondo sembra innegabile. Come questo volume dimostra, al di sotto o al di là delle vesti ideologiche agivano nelle rivendicazioni studentesche potenti motivazioni sociali e culturali cui la politica non seppe dare adeguate risposte.
Sperimentazioni e ricerche
Il libro riserva ancora temi e pagine che basterebbero a fare un volume normale. Vi sono ricostruite due diverse sperimentazioni di grande interesse, svoltesi a Rovereto negli anni Settanta. La prima nasce nei palazzi della scuola tradizionale: il Biennio (e poi Quinquennio) Superiore Unitario viene istituito in un quadro di rango nazionale ed è guidato all’avvio da un educatore di grande carisma come Umberto Tomazzoni, presto però ammalato e deceduto. La meditata sperimentazione di una nuova superiore, nonostante i sostegni sulla carta, rimane via via isolata fino a chiudere malinconicamente con il 1977-78 un percorso alimentato da uno slancio pedagogico che meritava esiti più condivisi.
Il secondo caso studiato è quello dei corsi sperimentali per lavoratori, concretizzazione della conquista sindacale delle 150 ore di studio retribuito. Diego Leoni e Camillo Zadra riescono a convertire l’occasione di una didattica idonea alla situazione in un’originale e ricchissima esperienza di ricerche di storia dal basso. Nascono in questo contesto storie di paese e lavori pionieristici sulla storia sociale della Grande Guerra, come “La città di legno”, sui profughi trentini in Austria, edito nel 1981 e divenuto presto un vero e proprio classico.
Molto ricca è la parte dedicata al tempo pieno nelle elementari. Ne viene ricostruita analiticamente anche la dimensione organizzativa, ma la parte più suggestiva è quella che documenta l’enorme lavoro fatto da una nuova generazione di insegnanti per una didattica incentrata sul rapporto con la società, attraverso la ricerca sul passato e sul presente dei tanti luoghi che costituiscono il Trentino.
Ancora una volta prevale di necessità (ma anche per scelta di metodo) il ricorso a una documentazione non strettamente istituzionale. Le fonti principali sono qui i giornalini ciclostilati raccolti in tutta la provincia su iniziativa di “Materiali di lavoro” a partire dal primo numero del 1978, accuratamente conservati da Quinto che della rivista era uno dei redattori fondatori: un fondo la cui esistenza fa risaltare per contrasto «la colpevole assenza di un centro di documentazione didattica che ha determinato l’irrimediabile dispersione della memoria scolastica provinciale».
C’è un’importante testimonianza del lavoro nella scuola di base (e dei suoi limiti e contraddizioni) che in questo volume non viene nominata nemmeno in una noticina o in bibliografia. Mi riferisco a “Blocco notes di un maestro di campagna”, il coltissimo e agile libro autobiografico nel quale Quinto raccolse una selezione dei testi di una rubrica scritta su “Questotrentino” allora quindicinale per quattro anni scolastici, dal 1985–1986 al 1988–1989, con la sigla H.D. (sono le iniziali di Humpty Dumpty, il personaggio di “Dietro lo specchio” di Lewis Carrol). Non se ne è dimenticato, di questo siamo sicuri. Io penso che l’abbia omesso nella sua vasta panoramica per evitare equivoci: “Scuola e società in Trentino” è un’opera di storiografia rigorosa fino all’austerità, nella quale la prima persona è tenuta sotto ferreo controllo. Altrettanto cerco di fare anch’io, seguendone l’esempio. Non mi soffermo dunque sulle battaglie culturali e politiche cui ho contribuito direttamente, come quella sui rischi della provincializzazione rilanciata da Kessler alla fine degli anni ’70 o quella sull’insegnamento della religione tra nuovo Concordato e consolidate tradizioni del 1985-86, nella quale si impegnò con particolare generosità “Questotrentino”, proponendo una laica alternativa alla povertà di cultura religiosa nella formazione delle nuove generazioni. Anche queste vicende sono ricostruite nel libro di Quinto su documentazione di prima mano, con il rigore consueto. Non credo di forzare troppo, però, se riconosco nelle sue pagine anche una sorta di autobiografia generazionale.