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La primavera guatemalteca

La inattesa elezione di Bernardo Arévalo alla presidenza: si puòsperare in un futuro migliore.

Dieci anni di primavera nel paese dall’eterna dittatura” soleva dire il grande scrittore e poeta Luis Cardoza y Aragón del suo Guatemala, riferendosi alla Revolución Democrática del 1944 (anch’essa d’ottobre) curiosamente propiziata da giovani ufficiali dell’esercito. Un rivolgimento assai poco conosciuto e ricordato che venne prima dell’arcinota caduta del tiranno Batista nella vicina Cuba. Come del resto la rivoluzione messicana aveva paradossalmente anticipato quella ben più planetariamente impattante dei bolscevichi all’inizio del secolo scorso.

Con la differenza che entrambi questi due primissimi sconvolgimenti nel “cortile di casa” dell’imperio del norte non affondavano le proprie radici nell’ideologia marxista, bensì sulla necessità storica di una riforma agraria che si lasciasse alle spalle definitivamente l’epoca colonial/oligarchica della conquista in America Latina. A sua volta ereditata nei primi decenni dell’Ottocento dalla “Dottrina Monroe” all’insegna dell’America agli americani; dove per americani s’intendevano naturalmente solo gli statunitensi. Lo stesso Fidel Castro, del resto, non era iscritto al Partito comunista, bensì a quello Ortodosso, antimperialista e martiano (da José Martì). Il lider maximo esordì per l’appunto nella Perla de las Antillas con l’esproprio delle piantagioni di canna da zucchero in mano (diretta o indiretta) di imprese Usa. Salvo poi, in piena guerra fredda e per sopravvivere sovrani a sole 90 miglia dagli States, dover fare la scelta di campo dell’Urss, pur addolcita dall’adesione al Movimento dei non Allineati.

Non è del resto un caso che la rivoluzione in Guatemala, uno dei paesi dell’istmo centroamericano considerati repubbliche delle banane, sia stata rovesciata nel ’54 proprio da un golpe della United Fruit Co (e della Cia) per una timida espropriazione di terre incolte della stessa compagnia bananiera (antesignana multinazionale). Il tutto mentre Che Guevara era lì presente; prima di proseguire per il Messico, dove si sarebbe congiunto a Fidel nell’avventura dello sbarco del Granma a Cuba.

Bernardo Arevalo

Ebbene, il destino ha voluto che quella rimossa “primavera” guatemalteca fosse incredibilmente ripresa oggi con l’inaspettata affermazione alle ultime elezioni di Bernardo Arévalo, figlio di Juan José, che fu presidente per gran parte di quel formidabile decennio.

Non che fosse facile per lui guadagnarsi al primo turno (lo scorso 25 giugno) l’accesso al ballottaggio. È che il suo Movimiento Semilla (seme), nato durante le proteste di piazza del 2015 contro il depravato ex generale presidente Otto Pérez Molina (poi deposto e finito in carcere) era talmente in fondo ai sondaggi che, per salvare le apparenze, l’entourage di potere gli ha permesso di fare da foglia di fico a una contesa che di democratico aveva solo gli osservatori internazionali, giunti alla vigilia dell’apertura dei seggi per verificare la conta delle schede. Avendo prima escluso con largo anticipo e con mille pretesti ogni altro candidato progressista più titolato. A cominciare dalla leader indigena Thelma Cabeza del Movimiento para la Liberación de los Pueblos.

Sta di fatto che, nonostante un 64% di astenuti e che il primo partito si sia rivelato il “voto nullo” col 17,4%, nello stupore generale Arévalo è arrivato al secondo turno con l’11,8% per sfidare la conservatrice Sandra Torres dell’Unidad Nacional de la Esperanza (15,8%); superando il candidato dell’ultradestra di Vamos del presidente uscente Alejandro Giammattei, oltre che l’impresentabile partito Valorunionista di Zury Rios, anche lei (all’inverso) figlia di tanto padre: il generale Efraín Rios Montt, sanguinario dittatore nei primi anni ’80, nonché fra gli apripista delle sette fondamentaliste nel subcontinente latinoamericano (in chiave anti Teología della liberazione), essendo egli stesso pastore della Iglesia del Verbo.

Fino a che, dopo un vano tentativo giudiziario/elettorale di eliminare arbitrariamente i 23 deputati (su 160) eletti in parlamento oltre che Semilla dal ballottaggio del 20 agosto, allorquando le varie destre (riunite nello sbeffeggiato “pacto de los corruptos”) avrebbero dovuto convergere vittoriosamente sulla Torres, Arévalo ha prevalso clamorosamente col 58% dei suffragi. Proprio lui, la cui legittima candidatura era stata messa in discussione anche per essere nato in Uruguay, dove il padre si era esiliato all’indomani del colpo di stato.

Un successo dunque che ha confermato il profondo malcontento cui Semilla, a sorpresa, è riuscita a dare sfogo in una sorta di disperato sussulto di resistenza delle espressioni popolari superstiti, in particolare della società civile organizzata. In un paese che (insieme alla Colombia) aveva sperimentato la guerriglia più antica dell’America Latina. Con un tentativo di processo di pacificazione timidamente avviato dal democristiano Vinicio Cerezo, eletto nel 1985 e culminato solo con gli accordi di fine guerra civile del ’96. Con la Commissione della Verità dell’Onu a certificare il genocidio di 190mila indigeni, vittime della repressione.

Sandra Torres

Salvo un’inconsistente parentesi (2008/2012) del presidente moderato Àlvaro Colom (ex marito dell’ambiziosa primera dama Sandra Torres), da allora il più grande, popolato e ricco (quanto diseguale) paese del Centroamerica è via via risprofondato nella corruzione più sfacciata, gestita dall’oligarchia di sempre; fino a convertirsi letteralmente in un narcostato al servizio dei cartelli messicani.

La mazzata finale doveva giungere col presidente (ex intrattenitore tv) Jimmy Morales, che nel 2019 dissolse la Commissione Internazionale contro l’Impunità, scaturita dagli accordi di pace e supervisionata dalle Nazioni Unite. Da quel momento decine di giudici guatemaltechi furono costretti ad abbandonare il paese. Mentre la libera stampa è stata definitivamente zittita alla vigilia di queste ultime elezioni con la chiusura dell’unico quotidiano indipendente, El Periodico, e l’incarceramento del suo direttore José Zamora.

In un tale contesto il 64enne deputato Bernardo Arévalo, sociologo, ex diplomatico, può essere considerato il primo presidente eletto di sinistra del Guatemala dai tempi di suo padre Juan José (che fu peraltro tra gli ispiratori del Partido Guatemalteco del Trabajo). Un socialdemocratico della classe media dirigente bianca di questo paese a maggioranza indigena; a differenza dei limitrofi Honduras, El Salvador e Nicaragua, al 90% meticci.

Al capo di stato in carica Giammattei non è rimasto che ingoiare il rospo impegnandosi formalmente per un ordinato passaggio di consegne. Ma il suo partito ha subito mobilitato l’apparato giudiziario con la procuratrice della repubblica Consuelo Porras a rilanciare la messa fuori legge di Semilla per presunte irregolarità nella raccolta delle firme cinque anni fa durante la costituzione del partito.

Alejandro Giammattei

Anche Sandra Torres ha chiesto la ripetizione di un ballottaggio che escluda Arévalo. Lei che gli aveva tra l’altro attribuito di essere pro aborto e matrimoni gay. Quando in realtà Semilla ha precisato che l’aborto resterà legale (pur solo in caso di pericolo di vita della gestante); mentre sugli lgtb+ si è limitata ad escludere qualsiasi pratica di discriminazione di genere come di religione.

Il presidente eletto e la sua vice designata Karin Herrera, che hanno come priorità iniziale di governo la rimessa in funzione delle istituzioni democratiche con la lotta alla corruzione, il rientro dei funzionari giudiziari riparati all’estero e il ristabilimento della libertà d’espressione, hanno immediatamente denunciato il tentato colpo di mano, accompagnati da manifestazioni spontanee nelle piazze principali del paese.

Persino alcune organizzazioni maya, che si erano astenute dall’appoggiare Semilla, hanno dato il via alla paralisi di importanti vie di comunicazioni e degli accessi alla capitale. Anche la rediviva Nobel per la pace Rigoberta Menchù si è fatta risentire. In un Guatemala dove i rapporti fra autoctoni e criollos (ovvero i discendenti dei conquistadores spagnoli) e fra le stesse etnie originarie sono sempre stati assai difficili. Per non parlare delle inesorabili divisioni fra le sinistre di ogni dove.

Il Tribunale Supremo Elettorale ha fin qui difeso i risultati congelando l’istanza giudiziaria fino al 31 ottobre prossimo, quando toccherà alla Corte costituzionale dire l’ultima parola. In risposta la Procura (con alle spalle polizia ed esercito) ha realizzato una plateale operazione nella sede del Tse requisendo il materiale elettorale del primo turno.

La comunità internazionale, dall'Onu, all’Ue, all’Organizzazione degli Stati Americani, si è mobilitata reclamando una transizione regolare. E paradosso vuole (a conferma di come la geopolitica oggi cambi a gran velocità) che anche gli Usa di Joe Biden, sentitisi traditi dai narcoligarchi locali, sostengano attivamente Arévalo. Forse sperando che il Guatemala non migri verso Xi Jinping chiudendo l’ambasciata di Taiwan come hanno fatto tutti gli altri paesi della regione.

In ogni caso non sarà facile per Bernardo Arévalo arrivare a insediarsi indenne alla massima carica dello stato il prossimo 14 gennaio.