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Alluvioni: agire sulle cause, non sui sintomi

L’acqua deve essere trattenuta in montagna, con i boschi. Tentare di rimediare a valle è inutile e forse dannoso. Da “Una Città, mensile di Forlì”.

Giovanni Damiani, a cura di Barbara Bertoncin

La filosofia che ha retto gli interventi degli ultimi decenni è stata quella di allontanare l’acqua con bonifiche spesso volte a ricavare degli utili sul terreno conquistato e che sono arrivate a mettere mano ai fiumi. I corsi d’acqua sono stati sagomati in maniera geometrica, rettilineizzati, privati della vegetazione e soprattutto ristretti nelle sezioni. Ma questo restringimento aumenta la velocità di corrente e quindi la violenza con cui si verifica una piena.

Quindi il primo punto è capire - soprattutto in periodi di crisi climatica - che abbiamo sottratto lo spazio vitale dei fiumi trasformandoli in autostrade di cemento e impedendo l’interscambio con le falde, dove l’acqua scorre il più velocemente possibile.

Qual è il risvolto di questa vicenda? È che, avendo conseguito una vittoria sull’acqua, cioè avendola allontanata il più velocemente possibile, quando smette di piovere, in poco tempo tutto si prosciuga e arriva la siccità. L’asfalto, la lastricatura, i piazzali, i tetti scolano acqua che viene immessa nel sistema fognario per poi dirigersi verso il mare. Dopodiché arriva l’estate e ci lamentiamo della mancanza d’acqua.

Al di là delle singole situazioni, bisogna sapere che il serbatoio idrico più grande è il sottosuolo, che riesce a contenere più acqua della somma di tutti i fiumi e di tutti i laghi e di tutta l’acqua atmosferica. È un serbatoio gratuito dove dovremmo mandare il grosso dell’acqua. Questo purtroppo non avviene. L’alterazione del ciclo dell’acqua dipende anche dal modello di sviluppo, dalla filosofia di rettilineizzare e velocizzare. Ma l’acqua non ha fretta e noi dovremmo trattenerla il più possibile sul territorio e facendo sì che arrivi il più tardi possibile al fiume.

Alluvione a Lugo (Ravenna)

Veniamo alla vegetazione. Si sente sempre parlare dell’importanza di pulire gli argini. Si pensa che la vegetazione sia sporco da ripulire. In realtà, eliminare la vegetazione dai fiumi che abbiamo ristretto e canalizzato significa togliere un freno alla velocità dell’acqua. Se l’acqua è trattenuta più a lungo sul territorio, si evitano ingolfamenti e rigurgiti che poi arrivano a tracimare.

La vegetazione svolge un ruolo insostituibile sia per consolidare le sponde, sia per rallentare e mitigare l’energia dell’acqua. Tant’è che oggi utilizziamo i salici e altre essenze fluviali, i pioppi, ecc., per l’ingegneria naturalistica: al posto del cemento, dove dobbiamo consolidare frane e smottamenti, si fanno piantagioni di astoni di salici; un salice rosso, col suo apparato radicale fine ed esteso, arriva a fare una palla del diametro di circa sei metri e ha una forte resistenza allo strappo, proprietà ottime per consolidare i versanti. E invece noi li tagliamo.

Questi fiumi canalizzati sono poi soggetti a un altro fenomeno: se attorno è tutto arato, quando piove, l’acqua che riesce ad arrivare dentro al canale lo intasa, alzandone il fondo. A quel punto cosa si fa? Si alzano gli argini. Alla fine il fiume diventa pensile, sopraelevato rispetto al piano campagna. Non ci dobbiamo dunque stupire se i fiumi che scorrono in alto anziché nel solco più basso poi combinano dei guai.

Parliamo della rettilineizzazione. Un fiume per andare da A a B in linea retta impiega, ad esempio, dieci chilometri. Se invece gli facciamo fare il suo mestiere, cioè scorrere con anse e meandri, i chilometri raddoppiano. Nel momento in cui io raddrizzo il tragitto, il serbatoio viene dimezzato e a quel punto quando arriva la piena straripa tutto. La rettilineizzazione è una follia.

Altra considerazione: quando non piove, l’acqua viene dalla restituzione delle falde. L’acqua finita sotto terra è quella che poi alimenta il fiume d’estate e salvaguarda la ricchezza idrica del territorio. Se mettiamo pareti di cemento, oppure lo rendiamo pensile e impermeabilizzato con l’argilla, questo interscambio non avviene più e d’estate il fiume va in secca perché non riesce a ricevere l’acqua dal territorio circostante.

Si tratta di ripristinare i meccanismi naturali, il primo e più importante dei quali è quello di ridare al fiume la sua sezione, la sua larghezza. Gli abbiamo rubato fino all’ultimo metro per l’agricoltura, le strade, le infrastrutture e adesso persino per le piste ciclabili. Ma anziché seguire l’indicazione europea con relativi fondi per soluzioni basate sulla natura, si spendono soldi per ulteriori artificializzazioni, più argini e altri interventi già dimostratisi fallimentari.

Le casse di espansione, che si fanno necessariamente in prossimità degli alvei, davanti a piogge come quelle recenti sono di un’efficacia ridicola perché si riempiono in pochissimo tempo e possono ritenere pochissima acqua. Quello che fa arrabbiare è che noi, da una parte abbiamo tolto spazio al fiume invadendo le sue naturali casse di espansione con fabbriche, capannoni, zone edificate, protette da argini; dall’altra, le vogliamo fare artificiali. Insomma, distruggere un servizio ecosistemico gratuito per farne uno artificiale di dubbia funzionalità è una cosa che fa arrabbiare!

Il caso di Bari

La città di Bari storicamente si allagava provocando tante vittime. Dal 1500 in poi hanno fatto scolmatori, dighe, briglie, di tutto e di più, e si allagava lo stesso. Negli anni '50 hanno fatto un bosco di 1.300 ettari, la foresta Mercadante, a 35 chilometri a monte della città, da dove proveniva l’acqua, e Bari non si è più allagata. Nel 2005 c’è stata un’alluvione che ha fatto danni consistenti tutto intorno, ma la parte protetta dal bosco, la città, non si è allagata.

Il Corpo forestale dello Stato, oggi sciolto e aggregato ai Carabinieri - errore epocale - ha realizzato in Italia moltissimi “boschi di protezione”. Un bosco è un grande trattenitore dell’acqua, perché col fogliame gli alberi frenano l’energia della pioggia e limitano il potere erosivo dell’acqua. La stessa cosa fa lo strato degli arbusti e delle erbe. Quando poi l’acqua inizia dolcemente a scolare giù, incontra i muschi, che sono spugne straordinarie. Un etto di sfagno, il più comune muschio, trattiene 2,5 litri di acqua. Quest’acqua viene assorbita anche dalla lettiera di foglie cadute che si rigonfia. Sotto la lettiera c’è l’humus che, grazie alla sua natura colloidale, trattiene tantissima acqua. Sotto ancora ci sono le ife fungine e c’è un suolo che, non calpestato, non “capannonizzato”, riesce a ritenere moltissima acqua. Tutto ciò crea nel sottosuolo un bacino di rifornimento per le falde idriche che alimentano i pozzi e i fiumi.

La natura lavora per rallentare il ciclo dell’acqua che scorre sulla terra, non per velocizzarla come facciamo noi con le opere idrauliche. L’acqua deve arrivare al fiume il più tardi possibile per non mandarli in piena devastante. Con le casse di espansione ancora una volta si agisce a valle, sul sintomo, mentre bisogna agire all’origine, sulle cause. Ci sono aree che possono essere tranquillamente acquistate, espropriate e fatte diventare dei parchi urbani, dei boschi assorbitori di acqua.

Un ruolo ecologico

I fiumi svolgono anche un ruolo ecologico: sono depuratori naturali, sono i reni del territorio, purificano le scorie circolanti biodegradabili. Fino a poco tempo fa si pensava che l’inquinamento diffuso, ad esempio sui campi agricoli, con i pesticidi, eccetera, non fosse rimediabile in alcun modo. Oggi sappiamo che una buona dotazione di vegetazione ripariale, anche grazie alla sua lettiera, costituisce un filtro straordinario tra l’ecosistema terrestre e quello acquatico: da una parte, intrappola la sostanza più fine, dall’altra imprigiona moltissimi inquinanti.

Infine dobbiamo ricordare che la fascia fluviale del passaggio fiume-terra è la nostra Amazzonia. Lì c’è il 60% degli uccelli italiani, che la utilizzano come area di sosta, di rifugio, di riproduzione o di vita, la totalità degli anfibi e molte specie di rettili. Infine, le piante sono naturali condizionatori d’aria. La traspirazione delle piante abbassa la temperatura dell’ambiente assorbendo energia dall’intorno e imprigionandola nel vapore acqueo sotto forma di calore latente di vaporizzazione, e trasferendola verso l’alto, negli strati più freddi dell’atmosfera.

Frana a Monzuno (Bologna)

Ebbene, la vegetazione fluviale è la più potente da questo punto di vista, perché è altamente traspirante, l’unica che può vivere con le radici immerse nell’acqua: tutte le altre marcirebbero. Questa vegetazione è stata selezionata dalla violenza del fiume e si è evoluta per resistere alla corrente, con un’elasticità straordinaria, al punto che con i salici ci facciamo i cesti; queste piante hanno un'eccezionale resistenza alla trazione, per cui, quando arriva una piena, i rami si piegano e frenano la corrente ma non si spezzano. E poi hanno un apparato radicale imponente, tanto che i fusti non vengono strappati dalla piena e, infine, hanno grande rapidità di crescita.

Per questo togliere la vegetazione, che tra l’altro influisce anche sul clima, è una follia. I fiumi vanno ripuliti dai rifiuti veri, da tronchi secchi e ramaglie che potrebbero ostruire un ponte. Il resto non è sporco.

Ancora una volta, bisogna cambiare il paradigma: non agire a valle, sui sintomi, ma a monte sulle cause. E le cause delle alluvioni vanno ricercate sul territorio appenninico, sul territorio attorno al fiume, sul suo bacino idrografico; è lì che bisogna operare con interventi diffusi, intelligenti e soprattutto multidisciplinari, perché altrimenti un ingegnere idraulico tratta il fiume come se fosse una condotta d’acqua e non un ecosistema con le sue regole. Ci vogliono anche botanici, biologi, geologi, persino medici e storici del paesaggio, tutte le competenze necessarie e grande partecipazione del pubblico.

Altro che pulizie degli argini e vasche di laminazione che, oltre a essere di dubbia utilità, aumentano l’erosione della costa perché diventano dei depositi di limo e sabbia che bisogna ripulire continuamente. L’acqua va intercettata prima.

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Giovanni Damiani, biologo, è esperto in ecologia ambientale. È stato uno dei leader nazionali dei Verdi. Già consigliere regionale e assessore all’Ambiente della Regione Abruzzo, è stato direttore dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente, oggi Ispra; componente della commissione nazionale per le Valutazioni dell’impatto ambientale al ministero dell’Ambiente e direttore tecnico dell’Agenzia regionale per la tutela dell’ambiente.