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Non siamo l'Austria

Impreparazione, gaffe e scarsa sensibilità sociale: così il Sudtirolo sta affrontando l’epidemia.

Chiusi in casa, il nostro sguardo sulla realtà si allarga attraverso i mass-media, faziosi e urlanti, ma meglio attraverso i libri, che possiamo leggere con calma invece che a margine delle altre cose che dobbiamo fare di solito. Così – fra il resto - ho letto due libri di Norman Doidge sui progressi della neuroplasticità. Due libri più appassionanti di un romanzo, perché raccontano una rivoluzione della medicina che sta aprendo prospettive incredibili e meravigliose per malattie oggi dichiarate incurabili, e per la cura del dolore, non come palliativo, ma come cura e restituzione alla vita. Attraverso la collaborazione delle tecnologie più avanzate, della scienza medica e dei principi delle tradizionali discipline fisiche orientali, in diversi luoghi al mondo, soprattutto, gruppi di medici (geniali e appassionati dei loro pazienti)) raggiungono l’obiettivo di favorire l’autoguarigione del cervello, stimolandone la capacità di ripararsi. Lettura entusiasmante, e nello stesso tempo frustrante, perché la realtà della sanità pubblica altoatesina è distante anni luce. E con l’epidemia è stata una débâcle. Come dimostrano gli avvenimenti al tempo del Coronavirus in Sudtirolo.

Mascherine fasulle, tamponi mancanti e la strage nelle case di riposo.

L’autonomia spinge a fare da soli. Ma il ritardo nella ricerca di indumenti di protezione ha avuto conseguenze pesanti sulla protezione di medici e infermieri e degli operatori delle case di riposo. Finora 102 morti (quelli contati) in case di riposo, tantissimi positivi ancora a rischio. Persone a casa, malate, abbandonate senza tamponi né per loro né per i famigliari. E alcuni incidenti, o forse scandali (deciderà la magistratura).

Quando scrivo, i magazzini sono pieni di mascherine inutilizzabili, non conformi, e bocciate dall’INAIL e i tamponi si fanno a rilento perché mancano le protezioni per i sanitari. Il proprietario della Gallmetzer Holding, che ha 40 aziende, il 23 aprile ha donato 10.000 mascherine per i sanitari all’ASL in grave difficoltà.

L’obbligo di portare le mascherine è arrivato prima che queste fossero disponibili. Introvabili e poi riapparse a prezzi folli. Allora sono stati distribuiti degli strani “scaldacollo”, attraverso i giornalai - così chi stava a casa non li ha avuti. Ma non ha perso niente, perché gli scaldacollo (oltre che diventati importabili con i 26 gradi di un paio di settimane dopo) sono stati giudicati dagli esperti del tutto inutili. Qualche negoziante è stato anche multato, perché ne portava uno anziché una protezione vera. L’assessore alla Sanità e il presidente della giunta si sono giustificati dicendo che nell’emergenza avevano accettato l’offerta del cugino del primo: 700.000 euro, senza gara.

Ma non è bastato il primo “incidente”. La ASL, non riuscendo ad avere i presidi per le vie normali, con l’aiuto di un imprenditore locale che lavora anche in Cina, ha ordinato e pagato in anticipo (15 milioni) 1,5 milioni di mascherine e altri materiali protettivi, senza poterli controllare in anticipo. L’aereo si è fermato a Vienna, dove sono stati consegnati alcuni presidi. La certificazione era solo in cinese. Le mascherine, date a infermiere e medici, non chiudevano, mettendo in pericolo chi le portava vicino a malati di Coronavirus.

Gli Austriaci intanto hanno fatto esaminare il loro materiale all’Istituto DEKRA di Dresda in Germania, con giudizio negativo, per cui non le hanno usate. In Sudtirolo invece la distribuzione è andata avanti ed è stata bloccata solo dopo che l’INAIL le ha bocciate. Il direttore generale della Sanità ha raccontato che le mascherine erano state validate dalla Clinica Universitaria di Innsbruck. Ma la piattaforma salto.bzha scoperto che era falso. La Primaria e Direttrice del Dipartimento per l’Igiene e la Microbiologia medica della clinica universitaria di Innsbruck, Cornelia Lass-Flörl, in una lettera alla ASL altoatesina e con un comunicato stampa, ha negato di avere dato il via libera all’uso delle mascherine o che lo abbia fatto l’ospedale regionale del Tirolo: “Mi sento costretta, a pretendere una immediata smentita” - scrive - e conclude: “Comprendo la difficile situazione in Sudtirolo, ma attribuire a me l’attestazione dell’idoneità delle mascherine è davvero troppo. Mi dispiace, ma a mia tutela mi sono rivolta a un avvocato”. Un episodio che mette a rischio i rapporti fra la sanità sudtirolese e la clinica universitaria di Innsbruck.

Non siamo l’Austria

Con questi marciapiedi non è facile distanziarsi

Nei giorni scorsi, in un’intervista al Tageszeitung, la senatrice Julia Unterberger ha criticato gli imprenditori locali, che chiedono - anzi pretendono - un’anticipazione delle riaperture delle attività economiche sull’esempio di quanto avviene in Germania e Austria: “In confronto con Austria e Germania non si devono dimenticare i numeri: l’epidemia ha colpito l’Italia e anche il Sudtirolo molto più duramente... I numeri dell’infezione e dei morti sono più alti e se questi numeri non sono sufficienti, perché non si conoscono i numeri reali dei positivi senza sintomi, basta fare un confronto con il numero dei morti nei centri di terapia intensiva. Anche qui il Sudtirolo non è messo così bene”.

In Austria la Sanità pubblica non è stata selvaggiamente tagliata a favore di quella privata, o meglio di quella convenzionata (in quest’ultima i guadagni vanno al privato e le spese al pubblico) come in Sudtirolo, suggestionata dal modello lombardo, che si è visto in questa epidemia come funziona bene. In Austria è l’opposto. Tanto è vero che i reparti di terapia intensiva di alcuni ospedali austriaci hanno accolto pazienti italiani (e anche sudtirolesi). A Bolzano il pronto soccorso anche prima dell’epidemia era in condizioni terribili, la medicina di base è stata trascurata da anni, e la terapia intensiva è sotto stress anche in tempi normali.

Scippato il nuovo ospedale di Bolzano

L’ala nuova in costruzione da decenni, mai entrata in funzione, non servirà a rendere civile il Pronto soccorso che lo aspetta da 50 anni. La giunta provinciale ha deciso che diventerà un ospedale Covid19. Ci andranno tutti i casi gravi di Coronavirus della provincia “per alleggerire gli altri 6 ospedali” (che sono già oggi di gran lunga molto meno stressati di quello di Bolzano). Gli scienziati dicono oggi che l’ospedalizzazione è stata la causa di molte morti e consigliano di curare le persone colpite dal virus a casa (curarle, non abbandonarle a sé stesse) e comunque di non radunarle tutte in un posto. Ma qui decide la politica. Sarebbero necessari almeno 15 medici e 40 infermieri. E dove li prenderanno, visto che oggi nell’ospedale di Bolzano il sotto-organico è la regola? I medici delle due Rianimazioni del San Maurizio sono preoccupati perché le risorse disponibili sono appena sufficienti per gestire il ritorno all’attività ordinaria dei due servizi – nel tempo dell’emergenza le altre emergenze “normali” sono state sospese e moltissimi malati aspettano da due mesi operazioni e trattamenti urgenti e salvavita - e non si potranno gestire nuove attività. “Ne consegue - hanno scritto - che da parte nostra in questo momento e finché le risorse di personale non verranno adeguate, non è possibile dislocare personale medico e infermieristico in un’altra unità operativa. Sarà possibile tornare all’attività ordinaria e gestire in aggiunta una nuova Terapia intensiva Covid dedicata solo una volta che saranno disponibili risorse sufficienti”.

Il malfunzionamento dell’ospedale e lo stress di tutto il personale da troppi anni non importa nulla ai politici. Nella prima fase, quando il reparto di geriatria è stato svuotato e usato per i malati di Covid19, le infermiere dicono di essere state “buttate in acqua” con un paio di istruzioni, senza formazione adeguata.

L’impossibile “distanziamento”.

E ora inizia la fase due. Quando sono stati aboliti i limiti di movimento, una settimana dopo gli altri comuni, Bolzano si è rivelata per quello che è: una città a misura di auto e di Tir, nemica di chi va a piedi. Nell’ultimo anno, in vista delle elezioni, sono stati aperti centinaia di cantieri e aggiunte piste ciclabili, spesso dividendo a metà i marciapiedi. Da nessuna parte si sono fatti marciapiedi più larghi, indispensabili se si vuole che la gente vada a piedi senza affollarsi. L’unico obiettivo del Comune in materia di viabilità è quello di far correre le 75.000 auto dei pendolari e i 3500 camion. Con ogni sforzo individuale (che non tutti fanno) è impossibile rispettare le distanze previste dalle norme antivirus, pur scendendo dal marciapiede o camminando direttamente sulle ciclabili: i marciapiedi sono troppo stretti. Cosa succederà quando auto e biciclette si riprenderanno i loro spazi? È il dramma di una città governata per decenni da una classe politica vecchia, senza visione e senza cultura urbana moderna, che ignora l’inquinamento, e pensa solo ad aumentare il turismo e a costruire case di lusso; che considera il verde un decoro, non una necessità. E sarà difficile cambiare, perché in futuro ci saranno meno soldi.

La prossima estate, con 40 gradi e l’aria inquinata per il traffico fuori controllo come prima, sarà atroce. A New York, a metà dell’Ottocento, dopo un’intensa edificazione, si capì che c’era bisogno di aree verdi: così è nato il Central Park. Qui si cementificano le poche aree verdi, e gli alberi vengono piantati in mezzo ai marciapiedi.

L’SOS di 500 madri lavoratrici

La parola d’ordine è stata fin dall’inizio: riapriremo prima di tutti. Cosa resa impossibile dall’alto numero di positivi e di morti. Il presidente della Giunta ripete che il presidente del Consiglio continuerà ad affrontare la lotta al Coronavirus “con il suo modo centralista” e che vorrebbe una maggiore libertà di decisione autonoma. Così si barcamena fra la pressione di chi vuole riaprire tutto a tutti i costi (i proprietari dei rifugi pretendono una riduzione delle distanze di sicurezza, come se si potesse contrattare col virus la sua contagiosità) e il diritto alla salute.

Invece non si fa alcun cenno alle donne con figli che lavorano, che hanno già sopportato un peso enorme nella quarantena e guardano con spavento all’estate senza servizi per bambini. Cinquecento madri lavoratrici di tutti i settori, dipendenti e imprenditrici, hanno scritto una lettera al presidente della giunta con un SOS per i prossimi mesi. Per le task force, e per gli uomini dalla barba incolta con maschera abbassata che si affollano dietro ai tavoli davanti alle telecamere, loro non esistono. In Austria e in Germania chiusura e riapertura delle attività economiche hanno coinciso con la chiusura e la riapertura di asili, scuole per l’infanzia e scuole. Qui si dà per scontato che le donne stiano a casa. Non siamo l’Austria...