“The Rider – Il sogno di un cowboy”
Tra fiction e documentario. Un film di Chloé Zhao
Questo film è passato nelle sale un paio di mesi fa, ma vale la pena provare a recuperarlo in qualche rassegna/cineforum, o nei canali di distribuzione internet.
“L’ultimo buscadero” di Sam Peckinpah, del 1972, raccontava di un mondo che stava scomparendo, con un romantico Steve McQueen che cavalcava tori per sopravvivere. Specularmente “The Rider” di Chloé Zhao, nel 2019, racconta di un mondo che sopravvive, dal quale un giovane è però costretto ad allontanarsi.
Il mondo è quello dei cowboys e dei rodei, di cui ambedue i film propongono una descrizione ambientale di tipo documentaristico. Ma le somiglianze finiscono qui, perché “L’ultimo buscadero” è girato in Arizona tra cowboy bianchi, mentre “The Rider” nel centro-nord degli Stati Uniti, tra il South Dakota e il Nebraska, dove c’è la riserva degli indiani Oglala Sioux di Pine Ridge. E non è solo questo: se il cowboy da rodeo Steve McQueen agisce in una fiction in perfetto stile melanconico/muscolare di Peckinpah, il buscadero Brady è se stesso, un nativo americano e la sua è una storia vera, autobiografica, girata in stile documentaristico da una regista americana di origine cinese. Nel film lui, la sua famiglia, gli amici e il contesto sono ciò che sono in realtà.
A causa di una brutta caduta da cavallo Brady ha subito un trauma cranico con conseguenze neurologiche, il che gli impedisce di partecipare ai rodei, di cavalcare ed addestrare cavalli: cioè fare quello che ha fatto in tutta la sua vita, quello che è tutta la sua vita. Tornato a casa, dal padre e dalla sorella, affetta da una forma di autismo, prova da una parte ad ignorare i sui limiti, e dall’altra a lavorare come commesso in un supermercato, per ritrovarsi poi impossibilitato a optare per ambedue le opzioni.
Ma il film non è il solito malinconico pianto di una vittima (del suo mondo, della marginalità storica dei nativi americani...), che per suscitare la nostra compassione deve soccombere in nome del suo sogno, dei suoi valori, della sua identità. Non è un western romantico o politicamente accusatorio, è invece un film intimo, sull’identità, sui passaggi della vita che, a volte, si devono affrontare. Un film sulla necessità di cambiare di essere diversi di diventare qualcosa d’altro.
Brady è un cowboy indiano, il che suona come un ossimoro, e il film è tra il documentario e la fiction. In questo contesto di margini compositi, Brady finisce davanti ad un bivio: restare legato ai cavalli, alla libertà, agli spazi della prateria, alle sfide, ai rodei, alle amicizie virili, fedele ai principi di impegno e sofferenza/resistenza trasmessi dal padre, per cui andare verso l’ultima sfida e soccombere. O invece decidere di amare se stesso, anche se limitato, la sua famiglia e il suo amico paralizzato e trovare nuovo senso nella vita e accettare di viverla in modo diverso.
E lui fa la sua scelta. In questo senso il film è realistico, oggettivo e compiuto. Il personaggio protagonista, e colui che lo interpreta, sono vivi perché capiscono e accettano la diversità della propria condizione. Ed è questo che dà valore profondo al film, piuttosto che un’idealistica morte simbolico/vittimista: la decisione di vivere pur essendo altro, pur con nel cuore il permanere del proprio sogno, senza accuse né autocommiserazioni. Lo sforzo, doloroso, di accettare una realtà mutata è certamente meno romantico, ma molto più vero e importante.