Stelvio: economia, più che paesaggio
Approvato dopo 4 anni il Piano parco nazionale: la montagna ha partorito un - brutto - topolino
Quando venne votato in Commissione dei 12 lo smembramento in tre settori del parco dello Stelvio (unico caso al mondo), sembrava che i politici si fossero almeno minimamente preoccupati di garantire, attraverso norme precise (l’intesa dell’11 febbraio 2015, le linee guida recepite il 13 gennaio 2016, linee che hanno valore legale e non solo di indirizzo), la configurazione unitaria della gestione del Parco nazionale. Come del resto sembrava si preoccupassero di giungere in tempi brevi alla approvazione del Piano parco nazionale: 12 mesi dalla pubblicazione delle norme era la scadenza stabilita.
I commissari sotto la presidenza di Lorenzo Dellai, con preponderanza di presenze dell’allora centro-sinistra autonomista, succubi delle imposizioni della SVP, volevano dimostrare agli ambientalisti che lo smembramento era riconducibile a una necessaria semplificazione del funzionamento di un parco che in 80 anni di vita non aveva comunque mai avuto modo di esprimere un suo respiro, sempre a causa del boicottaggio amministrativo della componente politica altoatesina.
A quattro anni dallo smembramento (14 dicembre 2014), il piano parco solo oggi è oggetto di confronto per le osservazioni, prima di passare, così si spera, alla adozione definitiva. Cinque lunghi anni sono trascorsi nell’immobilismo: una azione ben studiata, voluta. L’obiettivo è sempre lo stesso: dimostrare a tutti che i parchi nazionali sono enti inutili, baracconi burocratici che frenano l’economia e tolgono diritti a chi abita i territori protetti.
La norma di attuazione della Commissione dei 12 si può ormai dire con certezza sia superata dai fatti. Le tre aree - lombarda, bolzanina e trentina - stanno procedendo ognuna per conto proprio nella pianificazione, mentre il Ministero dell’Ambiente, almeno fino ad oggi, invece di dimostrarsi garante della norma e della legge nazionale sulle aree protette, svolge un piccolo ruolo notarile, assistendo in silenzio.
In questi giorni sono state presentate le osservazioni degli ambientalisti al piano parco trentino, seguiranno a breve quelle dell’Osservatorio nazionale riguardanti il piano bolzanino e la Valutazione ambientale strategica della Lombardia. In tutti e tre i documenti prevale la sommatoria di piani urbanistici con una lettura di ristretta visione: un insieme di provvedimenti fra loro slegati e attenti soprattutto a dare soddisfazione a interessi locali. Trovarvi obiettivi che abbiano un risvolto di interesse generale, di profilo nazionale, è una impresa.
Nella pianificazione trentina, declamata come partecipata (percorso condotto dallo stesso servizio responsabile della bufala Translagorai, nella lettura si coglierà la ripetitività ossessiva di termini come valorizzazione, partecipazione, condivisione), si rileva immediatamente l’assenza di uno studio paesaggistico degli elementi naturali e antropici tipici del parco. Per contro, vi è una sovrabbondanza di analisi socio–economica, comunque discutibile nelle conclusioni, in quanto tendente a un unico obiettivo: valorizzare. Non è un caso che l’obiettivo prioritario del parco sembri essere la ricerca di “una visione strategica comune identitaria per la valorizzazione del parco”. Ridurre un piano parco a una simile visione del futuro di un’area ambientalmente strategica è deprimente.
Il linguaggio usato è particolarmente contorto ed anche questa non appare una scelta casuale: permetterà infatti, in sede di gestione del piano, di poter realizzare qualunque obiettivo, facendo proprio leva sulle contraddizioni presenti nei diversi articoli. Solo un regolamento particolarmente severo potrebbe recuperare tanti limiti.
Così fatto, il piano incoraggia gli interventi espansivi nei territori urbani consolidati, ma tutti sanno come questi territori comprendano anche ampie superfici a oggi non ancora edificabili. Si incoraggia l’uso di materiali non tipici favorendo il diffondersi di un’architettura in stile pseudo–alpino. Non si esplicita cosa sia realmente concesso fare e cosa no. Infatti la questione tipologica degli edifici viene liquidata come “lezioso esercizio”; ma è tutto il linguaggio usato che diventa impraticabile, appunto perché - questo sì - lezioso. Ci si trova in presenza di una semplice classificazione degli edifici, senza che questi siano stati inseriti in un contesto morfologico di alto valore, anche paesistico, privi di specificità propria.
Come abbiamo già detto, anche il mantenimento delle specificità viene descritto in modo nebuloso: si incentiva “l’innovazione”, si incoraggia “lo studio espressivo”, in pratica si lascia via libera alla fantasia di ogni progettista, in nome della modernità.
Il restauro è previsto per sole 8 costruzioni sulle 330 censite, quattro delle quali sono capitelli votivi e tre chiese, una sola baita. Il risanamento costruttivo è previsto per il 10% degli edifici, la ristrutturazione invece copre l’80% del patrimonio costruito. Per altri edifici ci si limita a garantire la conservazione della base del sedime: sopra ci potrà crescere di tutto, fino ad un aumento volumetrico del 15%. Proprio in un parco vengono stravolti gli indirizzi strategici dell’urbanistica provinciale.
È anche il quadro generale del parco a preoccupare. Non ci si pone alcun obiettivo tendente a rendere efficiente la gestione dell’ente (ricordiamolo, questa debolezza è stata la giustificazione della demolizione del parco nazionale), né si protegge, come abbiamo visto, l’originalità del patrimonio architettonico; l’attenzione ai beni naturali riprende quanto si discuteva negli ormai lontani anni ’80. Non vi è un capitolo che porti attenzione ai cambiamenti climatici in atto.
Nella sostanza si è in presenza di una sommatoria di decisione localistiche, inefficaci nel recuperare i diffusi errori del passato; anzi, per come è scritto, il piano ne facilita la rincorsa.
Italia Nostra ha definito questo piano “una miope irresponsabilità”. Non c’è dubbio alcuno: anche in questo passaggio l’ex assessore Mauro Gilmozzi ha lasciato profonda la sua impronta.