“Brattaro mon amour”
La periferia semiseria
Mi hanno sempre colpito le espressioni con cui vengono definite alcune zone meno centrali in questa regione: Gardolo “il Bronx di Trento”, “Shangai” ad indicare la zona di abitazioni popolari intensive di Bolzano. È chiaro come il riferimento a luoghi internazionali abbia l’intento di richiamare situazioni negative o complesse.
Vi sono posti in Italia il cui nome evoca situazioni difficili e spesso degradate, si pensi ad esempio a Scampia o ai quartieri spagnoli di Napoli, al quartiere Zen di Palermo, a Taranto vecchia. Si tratta di nomi che evocano un immaginario connotato da pericolosità, spaccio, ricettazione, ambienti sordidi, ma che non rimandano a scenari internazionali: Scampia è un luogo fortemente connotato di per sé, non serve un paragone con un’altra città per cogliere il fatto che sia un luogo difficile (non è ovviamente necessario precisare come tutti gli immaginari si basino su una quota di verità, ma siano in massima parte dei luoghi comuni, degli stereotipi tanto facili quanto superficiali).
Il mio occhio meridionale non può dunque che trovare ingenui e anche talvolta esagerati certi paragoni negativi riferiti alle periferie di questa regione e sopratutto il fatto che per farli sia necessario scomodare realtà ben più complesse: quale degrado e incuria può mai esserci nelle efficientissime province autonome di Trento e Bolzano? L’evocazione di metropoli mondiali è molto d’effetto, ma l’ho sempre avvertita come un po’ ridicola. Vero è che ogni città ha il suo salotto buono e i luoghi più defilati, quelli periferici, in cui le situazioni avvengono lontano dalle luci dei negozi, dei musei, delle biblioteche, dei turisti col naso in aria; dove spesso l’industrializzazione ha disegnato il territorio e l’immigrazione ha provato a ricavare i suoi spazi, dove il prezzo degli affitti è più basso, dove accadono cose da cui è meglio stare lontani.
Luoghi in cui non è la presenza di bande armate, violenze, droga, criminalità, scontri mortali a creare isolamento, ma lo scorrere diverso delle situazioni, più rude, più semplice, più spontaneo, intorno a pochi elementi, che sono però decisivi: spesso un bar dall’arredamento kitsch o un chiosco delle birre. Ed è proprio intorno ad un chiosco di wurstel (in slang brattaro) che si svolge lo spettacolo “Brattaro mon amour, la periferia semiseria”, l’ultima produzione di questa stagione dello Stabile di Bolzano. La scena è dominata dal chiosco, dalle sue luci e dai suoi colori. Si tratta del brattaro di via Resia, nel quartiere più popolare di Bolzano intorno al quale ruota una serie di clienti affezionati, di frequentatori diversi, di linguaggi ed equivoci.
Al suo interno è accaduto qualcosa di inspiegabile: una mattina viene trovato per terra il corpo della ragazza che ci lavorava. Le indagini vengono affidate ad un poliziotto dall’inconfondibile fare e accento meridionali. Tutti i frequentatori abituali sono sospettati. La ricerca del colpevole viene condotta con una serrata serie di interrogatori che via via mostra come ciascuno ha in teoria un movente per aver commesso il delitto, ma l’indagine porta sopratutto alla scoperta di una Bolzano inedita, di tante microstorie personali che si incrociano in un gioco di luoghi comuni, verità disarmanti, incomprensioni. Ciascun personaggio è portatore di uno stereotipo intorno alla sua provenienza. Nell’avvicendarsi delle confessioni il linguaggio diventa una sorta di Esperanto urbano e moderno, che mescola l’Italiano rigido e stentato degli immigrati dall’Est, il perenne sfottò meridionale, l’orgoglioso e irredentista tirolese, il veneto.
Lingue diverse, estetiche differenti, vissuti opposti, tutti in un unico luogo, il brattaro, che non a caso è anch’esso precario e non fisso, ma che costituisce per ciascuno una pratica abituale, un momento di verità, di resa autentica nello scorrere doveroso delle giornate.
Il poliziotto, più che incutere senso dell’autorità, dà l’impressione di una macchietta, anch’egli è uno stereotipo, quello dell’Italiano del sud trasferito a Bolzano, nel freddo Nord, per scontare una punizione dovuta ad irregolarità sul servizio. Anche lui ha la sua storia oscura, come gli altri indagati.
A turno ciascuno ha il proprio momento di verità e di luce in cui tira fuori la sua storia, l’inconfessabile tragedia che si porta dentro. Piano piano va componendosi un quadro multiforme di situazioni che quasi meraviglia per la sua eterogeneità, in una città come Bolzano in cui sembra strano possa accadere qualcosa di scandaloso e indicibile. Eppure piccole cose accadono e segnano irrimediabilmente il presente e il futuro mostrando come ogni città abbia la sua quota di difficoltà, i suoi fatti negativi, difficili e pericolosi, e come non siano necessariamente le armi, la criminalità, a renderli tali. Probabilmente anche la morte della cameriera è solo un pretesto, un’occasione per smuovere la normalità e l’apparente tranquillità. “Questo spettacolo tenta di indagare il mutare dei nostri quartieri, le trasformazioni di una periferia complessa e particolare come quella della nostra città”, recita la presentazione fatta dallo Stabile di Bolzano.
Lo spettacolo ha un obiettivo non semplice ma, a mio parere, necessario per comprendere gli spazi in cui viviamo, per smontare gli immaginari che siano essi negativi o ingenuamente positivi sulle città che abitiamo o di cui presuntuosamente crediamo di avere conoscenza.