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“Nella tempesta”

Troppa carne al fuoco

“Nella tempesta”

È necessario porre delle premesse, prima di addentrarsi “Nella Tempesta” dei Motus. Quarto appuntamento del cartellone Altre Tendenze al Sociale di Trento, la proposta della compagnia riminese – in scena il 23 marzo – era ai miei occhi una di quelle a cui non si poteva mancare. Gli stimoli erano parecchi: la partenza dalla “Tempesta” shakespeariana, lo scavo su un tema attualissimo come il dramma dei migranti, la complessa e intrigante ricerca artistica della compagnia. Uscito dallo spettacolo (o performance?), ho cercato di orientarmi nel magma di input offerti leggendo le recensioni. Ho trovato che queste indugiavano molto sulla componente intellettuale, innegabilmente e fortemente presente nel lavoro di Motus (oltre a Shakespeare, sono citati con più o meno forza Aimé Césaire, Aldous Huxley, James Graham Ballard e Philip K. Dick), lasciando però incomplete altre questioni. Mia intenzione è riflettere soprattutto sulle scelte artistiche e sui linguaggi messi in campo e sullo spazio scenico che li ha ospitati.

Nella Tempesta” è una creazione che per funzionare appieno ha bisogno del coinvolgimento del pubblico. Prima ancora di recarsi a teatro, attraverso la richiesta di contribuire con una coperta da utilizzare nella rappresentazione e poi con una donazione a realtà sociali operanti nel territorio. Mentre ancora i performer creano l’originale scenografia disponendo su un palco concepito come pagina bianca le coperte (che formeranno di volta in volta grattacieli o scogli, onde o massa fisica), sul telo posto sul fondale scorrono dei video. Al calar delle luci, si ode fuori campo un frammento audio che raccoglie risposte di migranti alla domanda “What is a tempest for you?”. Al buio iniziale, con un solo proiettore mobile che emana abbaglianti fasci di luce, fa da contraltare una confusione da burrasca, dove il movimento di una sagoma è potenziato dall’effetto impattante di ombre cinesi e luci stroboscopiche. Il corpo è quello di Ariel-Silvia Calderoni, che invita il pubblico a fare “finta che io sia invisibile”, prima di introdurre in scena, col suo nome reale, Glen Caçi.

I due attori sono corpi che danzano tra le onde e a cui serve una guida. Non a caso a stretto giro si innesta la voce registrata di Judith Malina, fondatrice del Living Theatre e musa ispiratrice dei Motus: “Non bisogna cercare di difendersi dalle tempeste, ma scatenarle!”. È ancora Silvia Calderoni a esortare gli spettatori a risvegliare in sé le proprie tempeste interiori: “Chiudete gli occhi. Adesso ascoltate il rumore del vento e immaginate la vostra tempesta”.

Dal testo di Shakespeare, che smontato e rimontato acquista nuovi significati, si entra e si esce continuamente, così come si alternano repentinamente, fino a incrociarsi e sovrapporsi, finzione e realtà, letteratura e quotidianità, Seicento e attualità. Ne è un chiaro esempio la sequenza che dal video-documentario sugli sbarchi a Lampedusa accompagnato dall’intervista ad un migrante senegalese conduce all’entrata in scena di Calibano (Fortunato Leccese). È evidente il parallelo tra il mostro metà uomo e metà pesce e i profughi di oggi. Citando la versione postcoloniale di Césaire, Calibano dice di chiamarsi X: come non pensare, in questo passaggio, a “Rumore di acque” del Teatro delle Albe, in cui ogni cadavere è solo un freddo numero? Come Ariel, anche Calibano anela ad una libertà che però – come sostiene la voce fuori campo di Enrico Casagrande, autore del testo a quattro mani con la regista Daniela Nicolò – sarebbe la sua condanna. Ariel e Calibano aspirano alla libertà solo perché c’è la bacchetta di Prospero, il potere. Ariel-Silvia Calderoni riesce a liberarsi, scende in platea ed esce nel foyer, ripresa live in video e poi in mezzo a una manifestazione per i diritti dei migranti. L’attrice porta con sé, in segno di speranza, un arbusto, che ha in spalla anche al ritorno sul palco, dove lo lascia cadere, prima di spegnere la testa mobile-Prospero credendo così di ottenere una libertà che invece si rivela una prigione.

Nel calderone c’è fin troppa carne al fuoco: citazioni letterarie risemantizzate, continui accenni metateatrali, temi politici come la rivoluzione sociale, il potere e la libertà, la xenofobia e l’immigrazione.

Nella Tempesta è il prodotto di un’opera di pensiero e attoriale immane, ma manca di un focus: qual è il tema centrale? Certamente è una proposta che deve essere lasciata sedimentare, come dimostra il fatto che non subito siano scattati gli applausi. Forse il pubblico necessitava di qualche secondo per assorbire quanto visto e vissuto, forse troppo astrattismo non è alla portata di tutti, forse le condizioni materiali del Sociale non hanno permesso una completa comunione tra pubblico e spettacolo (sì, non performance). Una creazione del genere ha sicuramente bisogno di uno spazio a stretto contatto con l’uditorio per sprigionare la sua forza dirompente, che in un teatro all’italiana finisce per essere smorzata. Se l’intento, riprendendo lo sprone di Judith Malina, era quello di scatenare tempeste, è stato realizzato solo in parte.

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