“Revenant - Redivivo”
Un film esagerato. Di Alejandro González Iñárritu.
Quando ben prima che un film esca nelle sale italiane ci arriva sonoro lo strombazzamento mediatico a indicare l’attore di turno come sicuro vincitore dell’Oscar, per quanto straordinaria sia la sua performance, già c’è da mettersi in guardia. Non dico si tratti di bugia, almeno per i parametri hollywoodiani, al contrario, è probabile che sia così, ma un attore non è il film e il rischio che questa forzata sinèddoche non sia altro che il tentativo di nascondere i limiti di un’opera non troppo riuscita è grande.
È il caso di “Revenant-Redivivo” di Alejandro González Iñárritu. Il protagonista Leonardo DiCaprio è effettivamente molto bravo ad interpretare un ruolo che deve essere costato molto impegno, fatica e pure qualche bel rischio. Ma non è certo la prima prova convincente di DiCaprio, che si è dimostrato ottimo attore già più di vent’anni fa con “Buon compleanno, Mr. Grape”.
Il problema sono piuttosto il film e il suo regista, esponente di un cinema americano dell’ipertrofizzazione. In sostanza si prendono i parametri di un genere cinematografico, o anche semplicemente un vecchio film e se ne fa una revisione o un remake ingigantendo, esagerando, insistendo su elementi visuali, effetti speciali, caratteri dei protagonisti, aspetti della vicenda, condizioni ambientali e via discorrendo.
Molto cinema oggi non è altro che questo (vedi i film di derivazione fumettistica, quelli di Tarantino, e non oso pensare che cosa possono aver fatto nel remake di “Point Break”): enfatizzazione spettacolare permessa dalle nuove tecnologie, influenzata da altri mondi visuali (come i videogame) e apprezzata dalle nuove generazioni, che in questo mondo sono cresciute e di fatto decretano il successo economico di un film.
Il regista Alejandro González Iñárritu ne è poi proprio uno specialista, un virtuoso autocompiaciuto delle tecniche cinematografiche. Pensiamo all’inutile astrusità del montaggio di “21 grammi”, agli eterni piani sequenza di “Birdman”. Un cinema che comunque, con la giusta dose di ironia, può essere piacevole, divertente e intelligente.
Ma non è propriamente il caso di “Revenant”, che è il remake di “Uomo bianco va con il tuo dio” di Richard C. Sarafian, con Richard Harris e un imperiale John Huston e di cui ricopio direttamente la sinossi, a dimostrazione di quanto “Revenant” ne ricalchi le tracce: “Verso il 1820, una spedizione di cacciatori di pelli attraversa le foreste americane trascinandosi dietro un barcone. La guida viene assalita e ferita da un orso e il capo del gruppo, timoroso di un attacco indiano, l’abbandona al suo destino. Lo sventurato ce la fa a guarire e insegue la spedizione per vendicarsi, ma alla fine sarà proprio lui a salvarla dai pellirosse”. Le variazioni sono dettagli poco importanti.
L’ambientazione nel nordamericano è davvero affascinante, la prima sequenza dell’attacco al campo da parte di feroci e realistici indiani è emozionante e coinvolgente, la scena dell’attacco dell’orso sinceramente spaventosa. È dopo che le cose progressivamente degenerano, a causa dell’insistenza su elementi già ampiamente sottolineati: la malvagità del “cattivo”, l’ostilità della natura, il pretestuoso misticismo linguisticamente filologico, le disavventure del protagonista. Specialmente queste ultime vanno progressivamente molto oltre una pur minima parvenza di credibilità. Massacrato dall’orso, abbandonato senza armi né cib, in un clima gelido e in un ambiente oltremodo ostile, dopo mille peripezie il protagonista si salva pure dallo sprofondo in uno strapiombo di almeno cinquanta metri. Mia madre avrebbe detto: “Ma qua non se ne viene più fuori”, ed è lì che si tocca il fondo dell’artificio, perché l’avventura, per essere tale, deve essere incredibile entro la soglia della credibilità. Oltre, non è più avventura, è fantascienza, fantasy, altro, e si rischia di cadere miseramente in esagerazione parodistica. Un rischio in questo film accentuato dall’inversa proporzione tra realismo naturalista e credibilità dell’avventura.
Infine il tema di fondo è sempre lo stesso che ammorba il cinema dall’Asia agli Stati Uniti da un ventennio almeno: la vendetta, che francamente, oltre ad essere un sentimento disdicevole e non certo da enfatizzare, ha anche rotto i maroni. A peggiorare le cose qui il regista lo ammanta di bassissima pseudofilosofia scopiazzata da Werner Herzog e Terrence Malick (che già pure lui negli ultimi film aveva oltrepassato insopportabilmente il confine della maniera).
E mo basta!