Dall’Iran alla Turchia, alla Siria, alla Libia, all’Egitto...
I possibili scenari di una soluzione in Medio Oriente
Stanno venendo al pettine molti nodi: in Siria e in Libia soprattutto, vediamoli separatamente.
La recente visita di Kerry in Turchia si è conclusa con un comunicato congiunto dai toni minacciosi in cui si diceva che, se per la Siria non si trova una soluzione per vie pacifiche, nessun’altra soluzione può essere esclusa. Leggi: gli USA, appoggiando magari le forze armate turche, potrebbero anche aggredire la Siria di Assad. La Russia di Putin ha immediatamente e duramente risposto: così si distrugge la pace. Leggi: non entrate in Siria, territorio dell’impero russo, altrimenti si rischia un allargamento drammatico del conflitto, magari con il coinvolgimento massiccio di altri attori della regione come l’Iran. In effetti all’alleanza Russia-Iran, che ormai opera sul terreno della battaglia anti-ISIS tra Iraq e Siria, era impossibile pensare che non si contrapponesse prima o poi un tandem USA-Turchia. Gli USA esattamente come la Russia, hanno il problema di trovare chi metta gli scarponi sul terreno: le opinioni pubbliche dei rispettivi paesi non digerirebbero l’invio di soldati e tantomeno il ritorno di lucide bare. Ora, mentre Putin ha in sostanza risolto il problema grazie alla disponibilità (interessata) dell’Iran degli ayatollah e dei suoi alleati (Iraq, Hezbollah), Obama si trova con un alleato potenziale fortissimo, ma molto, molto riluttante, la Turchia di Erdogan, che ha preferito lasciare che siano l’ISIS e jihadisti vari a fare il lavoro sporco di mettere i bastoni tra le ruote alla marcia del rinato Iran dopo-sanzioni.
Perché oggi l’oggetto del contendere è chiaro: bloccare all’Iran la possibilità di uno sbocco al Mediterraneo attraverso Iraq e Siria e rendere impossibile la progettata costruzione di condotte (pipelines) che portino il gas iraniano sui mercati europei. A differenza del petrolio, che viaggia di solito per mare, il gas ha bisogno di tubi speciali che hanno il difetto di richiedere una manutenzione e una sorveglianza costanti lungo tutta la loro estensione. Ora, una pipeline che dall’Iran arrivi fino al Mediterraneo dovrebbe passare proprio attraverso i territori controllati o infestati dall’ISIS e da bande jihadiste satelliti.
Ci si chiederà: chi non vuole questa pipeline? In primis l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo che, mandato giù il rospo della caduta delle sanzioni all’Iran, hanno un motivo in più per alimentare l’insorgenza di gruppi come ISIS e simili, che soli possono impedire il sogno neo-achemenide della proiezione dell’Iran sul Mediterraneo.
La Turchia è un caso diverso. Ha con il regime iraniano un rapporto molto ambiguo: i commerci e il turismo tra i due paesi vanno alla grande ma, sulla Siria, Turchia e Iran hanno visioni opposte. La Turchia, ex-potenza coloniale che dominava tutta l’area del Medio Oriente sino alla fine della prima guerra mondiale, aveva con la Siria buoni rapporti fino all’inizio della guerra civile anti-Assad; la quale è iniziata, guarda caso, proprio quando Erdogan si è reso conto che la Siria era entrata nell’orbita dell’Iran e del suo protettore russo. L’Iran, come s’è detto, mira a estendere il suo protettorato de facto sull’Iraq fino al Mediterraneo, e la Siria rientra in pieno nei suoi disegni. La Turchia, che dopo la fine del sogno di entrare in Europa si è volta a Oriente rispolverando nostalgie neo-ottomane, trova sulla sua strada proprio l’Iran. Fino a quando i due contendenti manterranno le formalmente buone relazioni attuali?
I due paesi oggi fanno pensare un po’ alla Germania nazionalsocialista e all’Unione Sovietica alla vigilia del patto scellerato Ribbentrop-Molotov sulla spartizione della Polonia, che nondimeno passarono due anni dopo allo scontro finale.
Ma non è detto che uno scontro finale ci debba essere. La Siria potrebbe essere davvero l’oggetto di una analoga spartizione tra Turchia e Iran. Ma se questo avvenisse, tutto sarebbe acquietato e pacificato nella regione, che sarebbe retta da un condominio turco-iraniano, oppure i due paesi, come la Germania e la Russia di 75 anni fa, inizierebbero poco dopo a combattersi andando allo scontro finale per il predominio nell’area? Un accordo Iran-Turchia, due paesi da oltre 70 milioni di abitanti con grandi prospettive di sviluppo, presupporrebbe un sostanziale accordo tra i due attori per la spartizione delle aree di influenza nel Medio Oriente; ma - ecco il punto - questo avverrebbe alle spalle degli Americani e dei Sauditi. Quasi superfluo aggiungere che Obama (e soprattutto i suoi avversari del partito repubblicano) vedrebbero in un esito di questo tipo una sconfitta epocale dell’America nella regione e un trionfo inaccettabile della Russia di Putin.
E l’Europa? L’Europa avrebbe molto da guadagnare da un ipotetico accordo generale fra Iran e Turchia che porterebbe sul suo mercato tantissimo gas a buon mercato e tante altre occasioni d’affari. Soprattutto l’Europa si sgancerebbe dalla stretta tutela americana che, sfruttando anche le divisioni interne a Bruxelles, ha finora impedito una politica estera europea conforme agli interessi di un continente che ha il suo ventre molle proprio nel Mediterraneo.
Chi andrà in Libia?
E veniamo al capitolo Libia. Mentre i nostri politici si crogiolano nei loro piccoli e grandi traffici pomposamente etichettati nel cretìn-english (Jobs Act, Family day, stepchild adoption, bail-in e via dicendo) alla moda, il paese che ci sta di fronte oltremare si sta riempiendo, com’è noto, di bande di jihadisti provenienti pare dal sud del Sahara e che vanno ad aggiungersi a quelle che già si spartiscono da tempo il paese. Dopo avere assistito impotenti alla tragica avventura che portò alla fine di Gheddafi e al caos di cui patiamo le conseguenze, l’Italia del cretìn-english imperante prova velleitariamente a proporsi addirittura a capo di una task-force che dovrebbe andare a risistemare le cose in Libia.
Opzione realistica? Evidentemente no. Ci mancano tante cose: visione strategica che solo paesi come Russia o USA hanno per la loro stessa proiezione su scala planetaria; tradizioni guerresche, che francesi e inglesi hanno sempre avuto e raffinato con l’ampia esperienza coloniale; siamo inoltre a corto di reparti e armi speciali, dopo le decurtazioni al bilancio della difesa che la NATO ci rimprovera un anno sì e un anno no; ci mancano infine (occorre dirlo), le palle per mandare ancora a morire i nostri ragazzi in un deserto che non è più il bel suol d’amore dell’antica nostalgica canzone, ma che s’è trasformato in un inferno che già lambisce con le sue fiamme l’Egitto, la Tunisia, il sud del Sahara. Il recente accordo tra i due governi di Tripoli (filo-islamista) e Tobruk (più laico e filo-egiziano) rischia di naufragare sul nascere.
Se così fosse, anche in questo teatro di guerra la coaalizione euro-americana sarebbe costretta a mettere gli scarponi nella sabbia, oppure... oppure l’alternativa sarebbe quella di coinvolgere nell’ingrato ruolo il terzo gigante del Medio Oriente, l’Egitto del generale alSissi. Magari con la promessa di garantirgli una fetta sostanziosa delle royalties petrolifere libiche. D’altronde l’Egitto, la vera polveriera del Nordafrica, con pezzi di guerra jihadista al suo interno e nel Sinai, ha tutto da perdere dall’incancrenirsi della situazione in Libia.
Un disegno sensato?
Sicuramente un disegno pragmatico, o persino cinico se si vuole, che comunque risparmierebbe agli europei la grana di dover mandare i propri fanti a morire tra le inospitali sabbie libiche. L’Italia, oggi, potrebbe realisticamente lavorare a questo scenario, se fallisse l’accordo di pace. Ne avrebbe molto da guadagnare, o quantomeno si risparmierebbero al nostro paese dolori e delusioni facilmente intuibili. Con l’Egitto esistono solide memorie condivise, dai grandi scrittori italo-egiziani Marinetti e Ungaretti a quel re Farouk che venne in esilio dorato in Italia; ma vi sono soprattutto eccellenti possibilità di sviluppo degli affari, soprattutto dopo la recente scoperta fatta dall’ENI di grandi giacimenti di idrocarburi al largo delle coste egiziane. Con i suoi 80 milioni e passa di abitanti, l’Egitto, questo gigante dai piedi d’argilla bisognoso di idee nuove e investimenti, offre all’ Italia e all’Europa una occasione unica per ri-orientare la propria politica estera, uscendo dalla onerosa tutela americana.
Più in generale, il caos libico ha riproposto all’Europa, troppo distratta dalla crisi ucraina (pilotata ad arte dagli USA ai suoi danni, oltre che ai danni della Russia di Putin), l’urgenza di dotarsi di una politica a lungo termine nel Mediterraneo. Occorrerebbe trovare idee e risorse per costruire una nuova area di scambi (non solo commerciali) con i paesi arabi della costa nordafricana, per creare un sistema di aiuti e investimenti sul lungo periodo che ne favorisca lo sviluppo stabile, così che i flussi migratori provenienti dal sud del Sahara si fermino nel Nordafrica, invece di proseguire per l’ Europa. Ma l’Europa, come si sa, si muove in ordine sparso: oggi Francia Inghilterra e Olanda mandano i loro aerei a bombardare la Siria, mentre Italia e Germania se ne tengono alla larga; tutti perseguono una politica estera completamente autonoma, ossia orientata dagli interessi nazionali, lasciando alla nostra pur brava Mogherini (che parla persino un ottimo inglese) i discorsi di circostanza e le perorazioni sui principi.