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Vendemmia a Cembra: ieri una festa, oggi uno stress

Sandro Gottardi

Fino a non molti anni addietro, quando ancora l’agricoltura rappresentava l’attività principale per zone periferiche come la Val di Cembra, i cicli della stagione agricola erano anche il calendario delle comunità. L’aspetto religioso era, ovviamente, molto importante e permeava in maniera profonda questi momenti, con riti propiziatori e di buon auspicio, oppure di ringraziamento per il raccolto. La scarsa meccanizzazione rendeva inevitabile che certi lavori fossero svolti collettivamente, costruendo legami sociali molto forti, tipici della gemeinschaft teorizzata dai primi sociologi.

La vendemmia, rappresentava la conclusione del ciclo agricolo ed era, in sé, un momento di gioia legata all’imminente riposo, dopo le fatiche dell’intera stagione. In settembre le campagne brulicavano di persone indaffarate a raccogliere l’uva e l’intenso vociare riempiva i filari di vita per un’ultima volta prima dell’autunno, metafora della vita che cede il passo. Poi, negli anni ‘60 del secolo scorso, lo sviluppo a livello industriale del settore del porfido e una certa attrattiva esercitata dalle fabbriche della città, hanno determinato un generale abbandono della terra, soprattutto sulla sponda destra della valle.

Quella del porfido si è caratterizzata come una monocoltura che ha condizionato e condiziona, nel bene e nel male, anche le vallate limitrofe e non solo dal punto di vista economico. Poter fare l’operaio fu un’occasione di emancipazione da un’economia di pura sopravvivenza, dove le misere entrate derivavano dalla distillazione clandestina della grappa (per cui la valle è ancora conosciuta), dall’allevamento dei bachi da seta e dalla vendita, perlopiù occasionale, di frutta e legname. Poco si sapeva, del “lato oscuro” rappresentato dalle malattie professionali e poco importava se le fabbriche e i luoghi di lavoro erano generalmente insalubri e pericolosi.

Negli ultimi anni, stiamo assistendo ad un’apparente inversione di tendenza, con un ritorno alla terra accentuato in parte dalla crisi economica, ma determinato principalmente dall’interessante redditività, (sebbene sempre minore) soprattutto in alcuni settori, come quello vitivinicolo, delle mele o dei piccoli frutti. Proprio attorno a questi comparti si è creata, via via, una struttura di supporto e di commercializzazione con un’economia di scala in continua espansione. Sono nati consorzi e cooperative (alcuni diventati dei colossi anche a livello nazionale) che in alcuni casi hanno trasferito anche all’agricoltura problematiche tipicamente legate al mondo della della speculazione finanziaria (basti citare, su tutti, il caso delle cantine LaVis, più volte trattato da questo giornale nei mesi scorsi).

È un “ritorno” che riporta ad una realtà assai diversa, per certi versi quasi irriconoscibile. L’introduzione di nuove tecniche di coltivazione e di varietà più produttive ha stravolto l’agricoltura tradizionale introducendo, nel settore, un’impostazione tipicamente industriale. Questo, se da un lato ha certamente permesso di aumentare in maniera generalizzata il reddito dei contadini, ha però diffuso, anche nei campi, molte delle nevrosi e delle contraddizioni tipicamente associate ad altri settori e contesti.

Attualmente una buona parte della frutta e della verdura consumata in Europa viene dal deserto di Almerìa, in Spagna, che probabilmente rappresenta il modello di agricoltura più industrializzato e spinto a livello mondiale. Le coltivazioni sono realizzate in enormi serre, dove le piante crescono e fruttificano in un substrato con lana di roccia.

Un po’ meno estrema, ma sostanzialmente improntata agli stessi obiettivi di produttività, sta diventando la coltivazione delle fragole e di alcuni piccoli frutti nella zona del pinetano, in Valle dei Mocheni ed in Valle di Cembra. Si tratta, infatti, di coltivazioni fuori terra fatte sotto enormi serre, dove l’obiettivo principale è quello di spingere le piante ad una superproduzione per una breve ma intensa stagione prima di essere sradicate e sostituite. Paradossale è il fatto che alcuni dei substrati utilizzati provengono dall’Olanda, cioè un paese sotto il livello del mare.

Si tratta forse di esempi estremi, ma che indicano come l’agricoltura moderna sia sempre più in balia di forze che impongono, per esempio, continui ricambi colturali e forniture costanti a prezzi sempre più bassi.

È chiaro come il rapporto con questo mercato non possa essere gestito direttamente dal singolo operatore, che per forza di cose deve affidarsi a strutture che attualmente determinano, fin nei minimi dettagli, cosa, come e quando coltivare, con quali metodologie e, soprattutto, a quale prezzo. Dentro questo sistema, il contadino deve utilizzare abbondantemente la chimica, che rappresenta il metodo più certo ed economico per raggiungere gli obiettivi.

Un dato che dovrebbe far riflettere è che in Trentino si usano mediamente circa 58 kg per ettaro di fitofarmaci contro una media nazionale di 9 Kg/ha (dati diffusi dal Comitato per il diritto alla salute della Valle di Non elaborati da dati Istat). La conoscenza della biologia e fisiologia delle piante è quasi del tutto scomparsa e i cicli di crescita sono scanditi dai trattamenti, che in certe colture arrivano anche ad essere più di quaranta all’anno.

Non si tratta di pensare alla campagna come un mondo perduto, un paesaggio bucolico senza tempo dove la vita scorre tranquilla come un limpido torrente che attraversa immacolate vallate verdeggianti. Sarebbe forse fin troppo noioso. Nemmeno si tratta di sostenere che una volta fosse più bello di oggi. Più semplicemente vorrei sostenere che questo ritorno alla terra assomiglia troppo ad una colonizzazione, con tutto ciò che di negativo questo comporta in termini soprattutto di omologazione e perdita di identità.

Possibile che per poter vivere sul territorio si debba essere costretti a farlo diventare come un’enorme fabbrica a cielo aperto? La prevedibilità, la pianificazione, la standardizzazione che il mercato impone al settore agricolo e che si traducono in monocolture intensive e fortemente specializzate non hanno, a mio avviso, nulla a che fare con l’agricoltura. Nutrire direttamente la pianta per spingerla ad una superproduzione attraverso sostanze chimiche di sintesi, è ben diverso dal nutrire la terra rispettandone i cicli vitali come, in primis, quello dell’azoto.

Questo “ritorno” non aiuta minimamente a risolvere i problemi ambientali che la società moderna ha determinato, dei quali i cambiamenti climatici rappresentano la punta dell’iceberg. Piuttosto, esso peggiora le cose aumentando il rapporto tra input energia usata e prodotto ottenuto rispetto all’agricoltura tradizionale.

Riduce fortemente la biodiversità che ha permesso, via via, una selezione di piante ed animali resistenti ed adatti a vivere in un determinato microclima indebolendo così, nel lungo periodo la capacità di reazione dell’intero ecosistema.

Tende a forzare i limiti fisici e biologici attraverso l’uso massiccio della chimica o della manipolazione genetica, arrivando addirittura a produrre frutta e verdura senza bisogno di terra.

Non permette, infine, di ricostruire quel legame tra il produttore e il prodotto del lavoro, forse una delle maggiori cause di alienazione e mancanza di senso che, ancora oggi, milioni di persone sperimentano quotidianamente.

Una volta la vendemmia era una festa, anche se la fatica e la miseria erano molto più grandi di oggi. Oggi è principalmente uno stress, un’attività che si è costretti a fare quasi a cottimo con le tempistiche imposte dalla cantina di riferimento.

Le feste, quelle che si richiamano alla tradizione, assomigliano sempre più a degli eventi commerciali buoni per vendere qualche bottiglia in più, ma che di tradizionale hanno ben poco.

Va tutto bene, ma “l’arte di lavorare la terra, per ricavarne il maggiore e migliore frutto possibile compatibilmente con la natura del suolo”, mi pare cosa ben diversa da questo.

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Commenti (1)

Che bella storia che racconti carmelo

Caro Sandro hai messo la piaga nel dito....che con l'amarcord delle foto ci dice che forse al tempo dello foto con il dagherotipo il territorio si conservava con la cultura del cambio delle semine e con una serie di Sapienze che rigenerava il terreno con l'equilibrio fra il dare e l'avere, equo.L'acqua non era velocizzata dal cemento o dall'asfalto e quindi percorreva a memoria una miriade di rii e rigagnoli che erano fonti di autentica vivacità e microclimi dove imperavano gli ortaggi di base!.E chi portava el ceston spesso l'è arriva dritt come en pal fin a cento ani!Quello che dici poi non fa una piega e sarebbe bene che chi ha potere se ne facesse carico.Sembra che Dalla Giacoma dia un filo di speranza perchè le cose non peggiorino.Cosa positiva che ho notato sopratutto per le vigne è il recupero di molte zone con interventi che hanno migliorato anche il paesaggio con il vantaggio di aver messo sotto tutela zone abbandonate che inselvatichite potevano poi portare problemi,,,vedi il disastro Cinque Terre.Non è tutto oro quello che luccica.L'importante è legger e sapere che ci sono persone Preparate che s'interessano e divulgano analisi intelligenti..peccato che qui a Trento non sia stato eletto nessun rappresentante dei Verdi o della Sel...che sciaguratamente hanno corso separati vanificando un possibile consigliere eletto.Ma purtroppo a Trento oltre ai Trentini ci sono i Trentoni!buon lavoro..carmelo serafin
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