Scarpe alate
La prima scarpiera che ricordo era nella casa dove passai gran parte dell’infanzia (dal 1959 in poi), quella dove avere il bagno era segnale di progresso. Cominciavano gli anni del benessere, ma anche quelli dove, memori delle ristrettezze date dalla guerra, piuttosto che buttarli, s’inventavano nuovi usi ai mobili vecchi. Così un mobiletto di legno con due ripiani, residuo della dispensa di conoscenti ricchi, ridipinto più volte di bianco da papà, diventò la scarpiera dove si accumularono le scarpe di tutta la famiglia. Fino a quando le scarpe tracimarono nel corridoio e allora arrivò una seconda scarpiera in finto legno - che aveva la pretesa di sembrare antico - e dove le scarpe si allargarono per un po’: in casa eravamo cinque... Uno dei miei compiti era pulire, stendere per bene la crema nera e lucidare con la spazzola le scarpe di papà. Era invalido di una guerra che, in un bombardamento amico dei nuovi alleati americani, gli aveva lasciato una ferita di dieci centimetri alla caviglia, rovinandogliela. Portava scarpe ortopediche che assomigliavano tanto agli anfibi che poi misero anche i miei figli, e già che c’ero pulivo le scarpe anche dei fratelli. Avevamo una scatola da metallo con tante creme colorate, stracci per stenderle, lacci da cambiare, spazzole per lucidare e mi sentivo sempre molto orgogliosa del mio lavoro da lustrascarpe. Mentre le mani erano occupate a lucidare, la fantasia era libera di inventare nuove favole, alla ricerca d’inedite eroine da collocare a fianco della piccola fiammiferaia e subito dietro Cenerentola che perde la scarpetta. A dir il vero, già allora avevo una vera passione per far risplendere, con pazienza certosina, l’opacità delle cose che mi circondavano. A sistemarle con il mio gusto, togliendo il disordine dato dall’accumulo di oggetti superflui e improbabili. Che fosse una vecchia sveglia, un vasetto di ceramica, il bagno di casa o l’argenteria della zia ricca, tutto risplendeva e mamma era orgogliosa di questa mia passione istintiva e molto femminile. Mi avviavo alla carriera di figlia modello, futura moglie servizievole e madre preziosa. Era l’educazione della “servetta” che nell’adolescenza scatenò la mia ribellione e ancora adesso, nella maturità, mi appare medievale e discriminante. Sicuramente non l’ho trasmessa a mia figlia! Però, a riprova che l’istinto prevale, conservo intatto il gusto di disporre casa e cose con un mio artistico ordine interno. Anche se ho dovuto, a malincuore, delegare la pulizia, perché avere una “servetta”, non era sicuramente il mio traguardo, svilisce un po’ il mio femminismo e mi consola solo il fatto di creare occupazione. Di case da allora ne ho abitate cinque, pervasa da eterna irrequietezza, come purtroppo capita alle creature irrisolte. Anche le scarpiere sono cambiate, riempiendosi di colorate tenere scarpette infantili, pantofoline con il contrassegno, fosforescenti o mimetiche scarpe da ginnastica di adolescenti, anfibi e scarponi bisex. Fino a svuotarsi negli ultimi anni per riempirsi in altre case in altre storie. Ma pur avendo perduto moltissime cose di me stessa, il senso della famiglia mi è rimasto integro, e ci vuole molta cura dei ricordi perché non si possono vivere di nuovo. Sicuramente se il mondo della fantasia è pieno di riferimenti a scarpe, scarpette e magiche calzature, a ciabattini e calzolai prodigiosi, la realtà contemporanea è racchiusa nell’immagine di una fila interminabile di scarpe vuote, dipinte di rosso sangue. Non è difficile immaginare delle gambe, un cuore e una testa delle tante vittime di femminicidi, Scarpe diventate portavoce di una violenza codarda e inaudita, è impossibile rimanere impassibili di fronte a questa emergenza sociale. L’uomo sarebbe le scarpe che porta? Non sempre, caro Nanni Moretti: le parole sono importanti! Metti il mio caso. Dentro sarei una da tacco 12 o da scarponcino leggero per lunghe camminate, fuori indosso scarpe che non consumo e delle quali vorrei reinventare l’utilizzo. Farne ciotoline dove crescere margherite e viole, porta-candele o nidi per farfalle e pettirossi. Eh sì, la mia femminilità potata alle radici cerca metaforiche scarpe alate per fuggire via.