Italia e Mediterraneo
La politica estera fra diritti umani e realpolitik
La nomina del nuovo ministro degli esteri, Emma Bonino, ci ripropone ancora una volta un vecchio dilemma: l’Italia, il paese mediterraneo per eccellenza, ha una politica estera degna di questo nome?
1. È quasi un luogo comune che l’Italia del dopoguerra fino agli inizi degli anni ’80 non avesse una sua politica estera, bensì andasse a traino – o meglio “in pilota automatico” – della politica estera degli Stati Uniti attraverso la NATO e dei grandi paesi d’Oltralpe attraverso la Comunità Europea. Lo status di potenza sconfitta da un lato e dall’altro di paese a forte emigrazione verso il Nord Europa, non consentiva grandi margini di autonomia ai ministri degli esteri che si succedettero nel periodo. Col governo Spadolini iniziò la prima missione militare all’estero dell’Esercito Italiano in Libano, con il governo Craxi ci fu il famoso episodio di Sigonella, certamente sopravvalutato, ma comunque indizio di un riacquistato senso dell’orgoglio nazionale. Da allora l’Italia è stata impegnata in decine di missioni all’estero, anche in interventi militari veri e propri, sotto l’egida della NATO o in collaborazione con altri paesi europei: dalla ex-Yugoslavia alla Somalia, dall’Irak all’Afghanistan, per non parlare delle missioni di pattugliamento navale anche in mari lontani, come l’Oceano Indiano. In realtà, un po’ alla chetichella, già Andreotti aveva cercato uno spazio più autonomo, per esempio dando alla sua politica estera una marcata coloritura filo-araba, cosa che non mancò di creare frizioni continue con Israele; questa politica non fu mai smentita dai successivi ministri degli esteri (anche di sinistra, come un D’Alema) e venne semmai via via accentuata sino alla imbarazzante amicizia ostentata dall’ultimo governo Berlusconi per la Libia di Gheddafi e l’Egitto di Mubarak. Ora è evidente che il crollo di quei regimi sotto i colpi della Primavera Araba, ha creato qualche serio problema alla nostra diplomazia, che peraltro sembra essere riuscita a riaccreditarsi presso le nuove autorità della Libia post Gheddafi, inizialmente propense a favorire soprattutto i “liberatori” francesi, e ha saputo gestire senza danni la transizione al regime post Mubarak. Una cosa è certa: è sempre stato e continuerà ad essere interesse primario dell’Italia lo sviluppo di una politica estera filo-araba (e filo-islamica) in generale, a partire non solo dalla ovvia considerazione che i paesi che stanno al di là del mare sono tra i nostri migliori clienti e, nel caso dell’Algeria e della Libia, tra i più importanti fornitori di gas e petrolio, ma anche dalla considerazione che da quelle sponde arriva gran parte della immigrazione extra-comunitaria. L’Italia dunque, a prescindere dal colore politico dei governi dal dopoguerra a oggi, ha saputo tenere ben presente la centralità di questo scacchiere nel quadro della sua politica estera complessiva. Non v’è dubbio che anche con il nuovo ministro Emma Bonino, che ha fra l’altro una lunga consuetudine personale con l’Egitto e il mondo arabo, questa linea di sviluppo sarà potenziata.
2. L’altro grande scacchiere autonomo della politica estera italiana è l’Est Europa. Qui dagli anni ’60 in poi (dalla fabbrica Fiat di Togliattigrad fino ai recenti accordi tra ENI e ENEL e le corrispondenti grandi multinazionali russe, dalla dislocazione di aziende del Nord-Est in Romania fino alle varie acquisizioni di banche e assicurazioni nei Balcani) si è consolidata una forte presenza industriale e finanziaria italiana che ogni governo ha cercato di supportare alla meglio, spesso in palese concorrenza con la Germania e la sua Öst- Politik. Non si è mai sottolineato abbastanza che l’avversione tedesca per i governi Berlusconi non nasceva certo dalle ricorrenti buffonate del nostro ex-premier o dalle sue volgari battute, ma piuttosto dal malcelato fastidio per i “rapporti speciali” d’affari dell’uomo di Arcore con il presidente Putin. Anche qui è chiaro che Emma Bonino dovrà riprendere le fila di questo rapporto, così vitale per le industrie italiane esportatrici e per il bilancio energetico nazionale.
3. La nota più dolente dell’attuale politica estera, per cui ci si aspetta davvero una svolta, è la nostra posizione sui nuovi mercati, quelli dei BRICS (Brasile, Russia, Cina, India, Sudafrica) e dei cosiddetti “Next 11” (“i prossimi undici” emergenti: Iran, Indonesia, Nigeria, Turchia, Egitto, Messico, Filippine, Sud Corea, Pakistan, Bangladesh, Vietnam), paesi ad altissimo tasso di sviluppo con mercati che attirano esportatori da tutto il mondo. Quanto sia cruciale concepire una politica efficace in questi paesi in un momento in cui le nostre industrie - col mercato interno ormai fermo - puntano molto sulle esportazioni, è appena il caso di ricordarlo. Eppure non si sfugge alla sensazione che siamo in grave ritardo non solo rispetto ai soliti big europei, ma anche rispetto agli stessi BRICS che stanno facendosi largo a gomitate nei mercati dei Next 11. Oltretutto le gaffes sono all’ordine del giorno: dall’affare Battisti con il Brasile all’affare dei marò con l’India, per citare i due casi più noti. Qui serve davvero cambiare marcia, e imparare a programmare con cura: piaccia o non piaccia, il cuore della politica estera è sempre più una politica dei mercati d’esportazione. Il governo Monti lo aveva capito e non a caso l’ex-premier ha viaggiato molto alla ricerca di nuovi mercati o delle condizioni migliori per far ritornare le nostre imprese sugli altri.
Diritti e affari
4. Sappiamo quanto stiano a cuore i diritti umani al nuovo ministro degli esteri, ma dobbiamo anche ricordare che Germania, Francia e Gran Bretagna hanno fatto certamente più di noi in questo campo senza tuttavia trascurare di badare ai propri affari e ai propri mercati di riferimento. Diciamolo pure: i diritti umani sono stati spesso il grimaldello per inserirsi meglio nel commercio internazionale a scapito dei concorrenti. Il caso della Francia che, in nome della democrazia e dei diritti umani, ha mandato i suoi aerei a bombardare la Libia e il Mali, è esemplare. Per non parlare degli USA, che notoriamente usano l’argomento “diritti umani” a seconda del partner commerciale e degli interessi del momento. Che le esigenze della Realpolitik impongano questa subordinazione dei diritti umani alle logiche dei mercati è un dato di fatto, di cui abbiamo purtroppo una riprova ogni giorno. D’altronde, che in tutte le cancellerie dei grandi paesi si parli sia pure strumentalmente di diritti umani rappresenta un indubbio progresso rispetto ai tempi, non lontani, in cui l’argomento sembrava patrimonio esclusivo di idealisti e protestatari. La storia procede lentamente… e per quel misterioso meccanismo che è l’eterogenesi dei fini può capitare persino che un paese dittatoriale si ritrovi all’improvviso, per vie traverse o impensate, con una democrazia nuova di zecca. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non sbarcarono le loro truppe in Normandia nel 1944, perdendo 10000 uomini solo nel primo giorno, per il nobile scopo di riportare la democrazia nella Germania e nell’Italia del tempo, bensì semplicemente e più prosaicamente perché premeva loro ristabilire una precisa gerarchia nella divisione internazionale del potere e degli affari. Una Germania über alles in Europa avrebbe accelerato quel declino degli USA che invece è iniziato solo dagli anni ’90. La guerra costò agli USA milioni di morti, ma consentì di subordinare stabilmente l’Europa e il Giappone all’Impero americano e di dilazionarne così il declino per almeno 50 anni. Il declino poi è arrivato ugualmente, e dal crack della Lehman Brothers del 2008 è sotto gli occhi di tutti. Così come è ben noto qual è il paese che ne sta traendo il massimo beneficio: la Cina. La translatio imperii è già cominciata, ma non è detto che gli USA consentiranno che sia completata senza colpo ferire, senza cercare una nuova, estrema dilazione dell’inevitabile perdita dell’egemonia. Proprio per questo nei centri di studi strategici ci si pone da tempo la domanda: non saranno tentati gli USA di avviare la resa dei conti con il Dragone cinese, magari con il solito pretesto dei diritti umani e della democrazia? In questo più ampio contesto la nostra Emma Bonino, alfiere da sempre del “diritto alla vita e della vita del diritto”, inizia il suo mandato. Un caso evidente di commistione tra Realpolitik e diritti umani, il nuovo ministro lo dovrà affrontare subito. È il caso della Siria, dove gli USA sembrano decisi a dare la spallata finale a quello che è stato sempre un alleato della Russia (e un protetto dell’Iran e della Cina), particolarmente inviso a Israele, che fra l’altro guardava negli ultimi anni con preoccupazione alla crescita economica del paese. Non è un caso che proprio in questi giorni si sia parlato insistentemente sui media di uso delle armi chimiche da parte del regime di Assad contro i ribelli, ampiamente foraggiati da potenze occidentali e dai paesi arabi sunniti del Golfo: ecco già bell’e pronto il pretesto per intervenire militarmente sul campo, all’insegna della difesa dei diritti umani della popolazione siriana. Domani avremo magari, dopo un intervento militare più o meno lungo e sanguinoso, lo stabilimento trionfale della “democrazia” e dei “diritti umani” anche in Siria; e l’Europa si accoderà nuovamente alla regia USA. Cosa potrà fare o dire Emma Bonino?