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QT n. 16, 2 ottobre 2004 Servizi

Manca una cultura della riforma

Quale autonomia nella scuola nazionale e trentina?

Quando si tratta di ragionare in positivo, si ha spesso l’impressione vertiginosa di essere nudi, di dover partire da zero. Questo accade anche perché nella scuola, da tempo, manca un linguaggio comune, perché mancano anche sul piano associativo punti di riferimento unitari autorevoli. Ma nelle esperienze depositate, e in quel filo di elaborazione che pure ha mantenuto una sua continuità anche attraverso questo decennio difficile, non mancano indicazioni significative. Manca piuttosto, ripeto, un quadro di riferimento complessivo e largamente accettato, diciamo una cultura della riforma commisurata ai problemi di oggi.

Non ci si può stupire che rispetto al nostro progetto scuola circolino solo tracce di riflessione iniziali e frammentarie. Documenti interessanti sono in elaborazione da parte del personale direttivo dei vari ordini di scuola, che speriamo di poter fornire tempestivamente ai nostri lettori.

Tra i partiti l’unico di cui conosciamo qualche materiale interno, interessante ma ancora come primo sondaggio, è il P.C.I. Lo sforzo più articolato e interessante mi pare però senz’altro quello del documento proposto al congresso della CGIL Scuola a cura di Edoardo Benuzzi, un buon punto di partenza per una discussione capillare nelle scuole.

Le linee di ispirazione del documento sono riassunte in alcune parole d’ordine: destatalizzare (che significa scelta per modelli antincentralistici e antiburocratici); costruire la scuola pubblica (che è qualcosa di più e di diverso che difenderla); realizzare la Costituzione (attraverso l’attuazione piena dell’uguaglianza, del diritto a una formazione non condizionata, della libertà d’insegnamento e della cultura).

Le direzioni da percorrere sono due: una nuova dimensione del diritto allo studio; una profonda ridefinizione dei poteri di governo, autogoverno e del sistema della partecipazione degli utenti.

Più convincente e innovativo mi sembra il capitolo sul diritto allo studio, dove si parla di una seconda "alfabetizzazione di massa": "il portare tutti i giovani ad acquisire quel complesso organizzato e cosciente di sapere che dà accesso all’Università, è l’obiettivo degno della nuova autonomia scolastica, per il quale le norme appaiono lo strumento necessario e sufficiente".

La seconda parte, e in particolare quanto riguarda gli organi collegiali di autogoverno, mi sembra, non a caso, sottotono, e in particolare questa formulazione minimalista: "Per quanto riguarda gli organi collegiali di scuola, bisogna confermarli prevedendo misure concrete per favorire la partecipazion di tutte le componenti. E bisogna estenderli anche alla scuola dell’infanzia ed alla formazione professionale. E dotarli di finanziamenti che ne consentano un funzionamento finalmente dignitoso".

I toni smorzati di questa parte contrastano con l’enfasi posta sul ruolo dei singoli istituti nel disegno di legge Galloni sull’autonomia delle scuole e sugli organi collegiali.

L’autonomia degli istituti. In genere a sinistra c’è una posizione fortemente critica nei confronti di quel progetto: se ne vedono i pericoli di polverizzazione e di tendenziale privatizzazione, ci si avverte una rinuncia ad una politica di riforma, se ne denuncia un’ispirazione liberista. Anche Santoni Rugiu scrive, dopo aver pure attaccato il modello "napoleon-sabaudo": "In effetti l’amministrazione della Pubblica Istruzione è il ramo più anacronistico e centralizzato di tutto il nostro potere esecutivo. E prima di concedere schegge di autonomia alle scuole sarebbe bene riformare il manico di viale Trastevere e sue diramazioni".

"Riforma della scuola"ha sempre preso le distanze con asprezza dal progetto galloniano. E, restando ancorati alle dimensioni anche locali del dibattito, vale la pena segnalare le argomentazioni critiche di Franco Frabboni, in risposta ad un questionario proposto proprio dal "Quadrante Scolastico".

Interrogato rispetto ai tre livelli di autonomia che abbiamo menzionato sopra, Frabboni risponde con un sì e due secchi no. No all’autonomia istituzionale intesa come "più società e meno stato", alla moltiplicazione dei soggetti scolastici diversi da quello pubblico, una strada lungo la quale si esaspererebbero le disuguaglianze di partenza.

No anche all’autonomia strutturale o organizzativa, cioè alla deregulation dei modelli organizzativi (tempo scuola, numero dei docenti per classe ecc.). "Noi diciamo no - scrive Frabboni - a questa possibile linea di tendenza di riformismo vischioso e strisciante della scuola nel nostro Paese, perché aprirebbe la perversa spirale istituzionale della babele dei modi di fare scuola: vera e propria mina vagante dall’alto potenziale devastante - questo è il nostro grido d’allarme - per una scuola tuttora priva di una riforma degli ordinamenti (ci riferiamo a materna, elementare, superiore). Sono le leggi di ordinamento le sole capaci di garantire all’intero sistema scolastico del nostro Paese le stesse condizioni di partenza quanto ad opportunità strutturali".

Sì dunque solo all’autonomia pedagogica, alla libera costruzione da parte delle singole unità scolastiche dei propri itinerari formativi: sì cioè al pieno dispiegamento della programmazione.

Non è che queste ragioni critiche non mi persuadano: ma rimane l’impressione di una morsa paralizzante. Da una parte dovremmo guardarci dalla polverizzazione, in nome di una politica riformatrice. Dall’altra constatiamo che il sistema politico è incapace di una riforma dal centro. Per questo, magari emotivamente, inclino a guardare con simpatia alle politiche di movimento, disegno Galloni incluso. E proprio il rischio da molti denunciato di un nuovo ministerialismo trentino, non dovrebbe indurci a scommettere con più coraggio sull’autonomia per così dire "dal basso", certo coi necessari interventi di indirizzo e di coordinamento e sostegno?

10 febbraio 1989