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Haiti e la democrazia

Lorenzo Gardumi

Spunto iniziale per questa mia breve riflessione sono state le domande che mi sono posto dopo la lettura dell’articolo di Paolo Foradori, "Haiti, fallisce la democrazia", apparso su L’Adige il 24 febbraio. Si tratta per lo più di un resoconto abbastanza dettagliato sul fallimento della democrazia ad Haiti, attraverso il suo sviluppo storico, considerando, in definitiva, la totale assenza di presupposti democratici, come la mancanza di una cultura, di una tradizione democratica e di condizioni socio-economiche adeguate. Un articolo che si può definire "politicamente corretto".

Quello che mi domando è: noi dove siamo in tutto questo, quali sono le responsabilità occidentali? E se tali condizionamenti, da parte nostra, ci sono stati, perché continuiamo a nasconderci accampando scuse o affermando che la situazione haitiana è unicamente il prodotto di condizioni oggettive indigene che ne impediscono la maturità democratica?

Non dimentichiamo, poi, che Haiti è vicina ad un’isola che spesso si è trovata al centro della cronaca mondiale: Cuba. Cuba e Haiti sono state sottoposte ad un rigido embargo economico; nel caso di Cuba, poi, è una situazione che si protrae da 40 anni, prima del 1989, per motivi legati alla Guerra Fredda e alla contrapposizione ideologica, ma, ora, quale senso ha questo blocco economico? Perché Cuba rappresenta uno "stato canaglia"? Perché siamo talmente innamorati della nostra democrazia da ritenerla migliore rispetto alle altre?

Eticamente e moralmente non è possibile condividere l’atteggiamento cubano in materia di diritti civili e politici, né mostrare favore rispetto alla pena di morte (che peraltro è da condannare in tutte le Nazioni che la praticano) o la stretta ancor più rigida imposta dall’amministrazione cubana ai tentativi di fuga dall’isola; però non posso considerarli come una situazione dovuta unicamente a condizioni endogene: l’embargo economico, che colpisce soprattutto le forniture di cibo e medicinali, e la politica estera americana hanno un qualche rapporto con la politica interna castrista? Se sì, perché non è possibile fare altrimenti?

L’altro embargo è quello, appunto, di Haiti. Foradori ricorda che nel 1915 intervennero i marines statunitensi, venendo a costituire, di fatto, un protettorato che durò fino al 1934.

Cosa fecero gli americani, tra il 1915 e il 1934? In un periodo di tempo così ampio, avrebbero potuto creare le basi per lo sviluppo di una cultura democratica, ma così non è stato se, dopo l’abbandono di Haiti, gli unici preparati a impadronirsi del potere furono i militari haitiani! Non era nell’interesse americano che si instaurasse una vera democrazia haitiana?

I vari Dessalines, Papa Doc, Baby Doc e l’ultimo Aristide hanno avuto sicuramente delle responsabilità, ma qualcuno ha comunque permesso loro di mantenere il potere per un considerevole numero di anni, sfruttando la popolazione e arricchendosi a suo danno. L’Iraq di Saddam Hussein non era forse il partner ideale per il mondo occidentale quando conduceva la guerra contro l’Iran khomeinista? E gli esempi potrebbero continuare…

L’embargo haitiano, come quello cubano, e se vogliamo anche quello irakeno post- prima guerra del Golfo, ha avuto effetti devastanti soprattutto per la popolazione civile, senza intaccare la forza dei regimi dominanti.

Ad Haiti, ad esempio, dopo la Giunta militare, nel 1995, alcune organizzazioni internazionali si preoccuparono della situazione haitiana: la Banca Interamericana e altre istituzioni cercarono di avviare una ricostruzione del sistema sanitario pubblico che era al collasso, ma non poterono completare la loro opera. L’embargo bloccò notevoli aiuti finanziari provenienti appunto dalla Banca Interamericana, pose fine ai progetti e inasprì le condizioni di vita della popolazione.

D’altra parte, Haiti non soffre solo le ingerenze statunitensi, ma pure quelle della Francia, ex potenza coloniale nelle Antille: i rapporti tra la Francia di Chirac e Aristide sono precipitati di recente in seguito alla richiesta, avanzata dal governo haitiano, di restituzione del denaro che Haiti fu costretta a pagare per ottenere l’indipendenza. All’inizio dell’800, Haiti pagò 150 milioni di franchi, indebitandosi per 1/3 della somma con una banca francese, per compensare Parigi della perdita di una ricca colonia. Per Aristide, quei 150 milioni sono diventati più di 21 miliardi di dollari d’oggi.

Secondo Leslie Voltaire, responsabile della "restituzione" del governo Aristide, privando il popolo haitiano di quel patrimonio si mise intenzionalmente in crisi il processo di sviluppo impedendo la costruzione di strade, scuole e infrastrutture di cui la popolazione di ex schiavi aveva bisogno. Queste affermazioni dovrebbero essere naturalmente verificate e analizzate, ma certo rappresentano un altro punto di vista.

Il governo francese e il Presidente Chirac non sembrano intenzionati a cedere alle richieste haitiane, in primo luogo perché ciò creerebbe un precedente pericoloso nei confronti delle altre ex colonie francesi; e poi perché, come afferma lo stesso Chirac, la situazione di Haiti sarebbe il "risultato della corruzione e del malgoverno haitiano" e Parigi non ha responsabilità.

Concordo con Foradori quando afferma che la situazione ad Haiti deve costringere a rivedere ciò che accade in Iraq e ad ammettere che è praticamente impossibile esportare la democrazia. Non concordo quando dice che la democrazia ha fallito unicamente per la mancanza di solide basi democratiche.

Resta allora da analizzare "cosa intendiamo noi per democrazia", "di quali meriti e vantaggi si possa vantare la nostra democrazia" e "su quali strumenti ci basiamo per imporre il nostro sistema democratico".

Credevo che, nel 2003-2004, l’usanza di "esportare la democrazia sulla punta delle baionette" rappresentasse una prerogativa della Rivoluzione francese. Mi domando allora come sia possibile ora, a 200 anni di distanza, ritenere di poter fare la stessa cosa.

Ora, poi, che Aristide ha abbandonato il Paese, quale sarà la politica adottata dalla comunità internazionale, vale a dire USA e Francia in special modo?!

Che democrazia è la nostra che nega e criminalizza il dissenso? Abbiamo o no una cultura democratica, partecipe e tollerante verso tutte le voci, soprattutto quelle dissenzienti?

Viviamo in un periodo storico particolarmente delicato, da questo punto di vista, dove il monopolio dell’informazione significa potere, dove la verità è spesso una pia illusione perché manipolata, perché falsata o perché semplicemente non detta!

Quella riportata dal Foradori è probabilmente una parte della verità, ma non è la verità, come del resto non lo è la mia: rimane, quindi, ciò che ogni individuo può scoprire da sé osservando con lente critica i fatti che accadono intorno a lui, ponendosi delle domande e cercando una risposta alternativa ai piatti resoconti giornalistici.

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