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QT n. 8, settembre 2010 Seconda cover

Tipico è non trovarlo

Indagine dentro i supermercati trentini, a caccia dei nostri prodotti tipici. E della decantata identità trentina. Ma trovarli non è affatto semplice.

Sulla bocca di tutti, a destra come a sinistra, è oggi l’identità trentina. Usata a volte per alludere a una presunta superiorità insita nell’essere trentini, altre volte per difendere uno status di autonomia che fuori dal Trentino appare ai più sempre meno comprensibile e giustificabile. Ma esiste davvero questa identità trentina?

“Non la trovo mica al supermercato!”: modo di dire che qualcuno potrebbe usare per rilevarne l’inconsistenza. Noi abbiamo voluto provare, però, a recepire alla lettera il concetto: se l’identità trentina esiste davvero, perché non si dovrebbe trovarne traccia dentro il luogo più frequentato dal cosiddetto “popolo” (e non solo da lui)? Il supermercato, appunto.

Siamo quello che mangiamo: va da sé che l’identità di un popolo, se c’è, la si trova anche (soprattutto?) sulla sua tavola. Ed in particolare, se identità ha da essere, in quello che solo quel popolo mangia, o comunque che solo quel popolo produce. I prodotti tipici. Ovvero produzioni dal valore ambientale - fanno poca strada per arrivare sullo scaffale e salvaguardano la biodiversità - e sociale - mantengono occupazioni e culture.

Lo Stato italiano, per evitare confusioni e appropriazioni indebite, i prodotti tipici li ha messi in lista. Nell’aggiornamento fatto a luglio dal Ministero delle Politiche Agricole, al Trentino ne sono stati riconosciuti 109. Noi abbiamo fatto una selezione di quelli più noti, individuandone 27, e con la nostra lista in mano siamo entrati in alcuni supermercati trentini di media grandezza. Obiettivo numero uno: verificare se i prodotti tipici, sullo scaffale, ci sono o meno. Obiettivo numero due: verificare se ad essi viene dato in qualche modo rilievo nell’esposizione o meno.

Naturalmente, ci siamo premurati di visitare punti vendita appartenenti a tutte e quattro le maggiori realtà della distribuzione organizzata presenti in provincia: Poli, Orvea, Conad-Dao e la cooperazione di consumo (Supermercati trentini e Famiglie cooperative). In totale, tra la fine di agosto e l’inizio di settembre siamo entrati in otto punti vendita.

“Mortandèla? Quella di Bologna?”

Trentino e formaggi sono un’abbinata che viene in mente subito, parlando di tipicità alimentari. Dalla lista ministeriale ne abbiamo estratti cinque: Casolet della Val di Sole, Nostrano di Primiero, Puzzone di Moena, Spressa delle Giudicarie e Vezzena. E cominciamo la nostra indagine proprio da loro, i formaggi. Direzione: il bancone dei freschi. Vediamo subito che quello che ci interessa non manca quasi mai. Solo il Nostrano di Primiero è meno facile da trovare, in un paio di casi manca anche la Spressa, ma il resto c’è. Ma ci accorgiamo che, dietro la vetrata del bancone, non c’è nulla che ci aiuti a riconoscere il prodotto come tipico trentino.

Ci si deve accontentare solo dell’etichetta col nome del prodotto, che però nulla dice sulla sua tipicità trentina. Né, tanto meno, chi si occupa dell’allestimento del bancone si è preoccupato di creare un angolo dei formaggi trentini. I nostri fanno bella mostra di sé mischiati indistintamente a pecorini sardi e toscani, ricotte pugliesi, emmenthal svizzeri, tzaziki greci.

Rimaniamo sul posto, e proviamo con le carni. Sono sette quelle da noi selezionate dalla lista statale nella categoria “carni e pesce”, con in più la trota trentina. La quale, notiamo con piacere, nel banco frigo presenzia sempre. Tra le carni, invece, se quella affumicata di cavallo, la carne salada e lo speck trentino non mancano mai, qualche problema in più abbiamo a trovare il lardo trentino (“Se vuoi, c’è quello di Colonnata”, ci dicono), e soprattutto Ciuìga del Banale, lucanica mochena e mortandèla nonesa.

“La mortandèla c’è?”, chiediamo a un banconista. “La Bologna?”, risponde lui. “Non la mortadella, la mortandèla nonesa!”. “Mai sentita”, ci dice, e il bello (o il brutto) è che ce lo dice in stretto dialetto trentino.

Che l’identità vada cercata di più nella lingua che nel palato? Mah... Sta di fatto che, anche per le carni, vale quanto già detto per i formaggi: il prodotto tipico magari c’è, ma non c’è nulla che comunichi al cliente che è tale, o che ne faciliti l’individuazione.

Il solo che ci prova è Poli, che ha predisposto un’etichetta apposita, recante la scritta “Prodotto locale”. A vederla, non è un granché, a dirla tutta. Scritta gialla su sfondo scuro non attira molto l’attenzione. In ogni modo, si tratta di un piccolo passo avanti. Anche se prodotto locale non vuol dire prodotto tipico e, soprattutto, anche se un inserviente ci invita a non fidarsi di quell’etichetta, perché “non sempre viene messa”. D’altra parte, il direttore del punto vendita non ci aiuta a capire meglio: “Non sono autorizzato a fornire ulteriori informazioni, c’è quello che vedi”. Non molto, verrebbe da rispondere.

Tipico di altrove

Meglio spostarsi, magari con le verdure va meglio, pensiamo. E pensiamo male. Il Trentino per lo Stato fa furore, a giudicare dai ben sedici prodotti tipici che guadagna nella categoria: noi selezioniamo carote e cavoli della Val di Gresta e la patata trentina di montagna. Per scoprire che “nemo profeta in patria est”: nei supermercati trentini, di furore, il Trentino ne fa assai meno. Anzi, per nulla. Non riusciamo a trovare nemmeno una volta in nessun punto vendita i prodotti tipici selezionati. Da dove verranno le patate e le carote che abbiamo di fronte in abbondanza? Sicuramente da più lontano.

Nemmeno i famosi crauti trentini sono facili da reperire, ci capita solo in un paio di casi. In compenso, sullo scaffale dei condimenti troviamo il tipico sugo d’anatra, la tipica mostarda e i tipici pomodori secchi. Ma, rispettivamente, di Asti, di Mantova e di Foggia.

Con la marmellata di piccoli frutti trentini, ovvero il prossimo prodotto tipico che abbiamo messo in lista, sicuramente andrà meglio, pensiamo, considerando il fior fior di produttori che abbiamo in provincia. Ma anche qui pensiamo male. Giunti davanti allo scaffale interessato, cominciamo a darci da fare con gli occhi. Marmellata di gelsi rossi. Tipica, ma sicula. Non ci interessa. Ah, eccoli lì, i piccoli frutti. Verona, Vicenza. Trento non si trova. Scopriamo alla fine che Poli è il solo ad avere marmellata di piccoli frutti prodotta in Trentino. Niente di artigianale, parliamo di quella “industriale” della Menz & Gasser di Novaledo, ma è già qualcosa. Però quella più in vista è la marmellata di frutti di bosco “Primia”, il marchio commerciale di Poli: prodotta... in Belgio.

Nemmeno col miele va molto meglio. Quello trentino lo Stato lo riconosce come tipico. Poli questa volta è il solo a non averne, piazzando in compenso il miele “Primia” prodotto in Sicilia. Gli altri ce l’hanno, ma ci risiamo: il prodotto tipico non è in alcun modo messo in evidenza, si confonde e si perde fra le altre decine di marche presenti sullo scaffale.

Beviamoci sopra, verrebbe da dire, visto che la nostra lista riserva la conclusione agli alcolici. Riscatto finale? Neanche a parlarne. Quelli tipici trentini da noi selezionati sono tre - Birra di Fiemme, Amaro della Valle di Ledro e Genziana trentina - ma, tra le innumerevoli e colorate marche tedesche, francesi, scozzesi e persino brasiliane, non riusciamo mai a vederne nemmeno uno.

Abbandoniamo scaffali e banconi piuttosto perplessi. Se il supermercato doveva darci la misura della consistenza dell’identità trentina, dobbiamo concludere che questa non dev’essere così pregnante e pervasiva. L’impressione netta è che a determinare cosa finisce sullo scaffale e cosa resta fuori sia ancora una volta soprattutto il mero criterio economico. Con buona pace dei nossi prodotti e della decantata identità trentina.

Due esempi controcorrente

Tutto ormai passa solo per i centri commerciali e la grande distribuzione organizzata? No, ci sono anche esempi molto virtuosi, che uniscono la sostenibilità economica allo scommettere sul grande valore aggiunto dei prodotti. A Lavis in via Matteotti, centro storico, resiste Arturo Paoli (www.arturopaoli.it), un negozio “di paese” all’interno della catena Dao-Conad. All’ingresso qualche cassetta di finferli. Provenienza? Lituania. Brutto segno? No, si trovano anche le patate della val di Gresta, ma è al banco dei salumi che ci sono le sorprese maggiori. Lardo, luganeghe, speck, canederli, crauti, tutti di produzione propria. Bella disponibilità di formaggi trentini, ma come mai manca la spressa? Corrado Paoli ci apre le porte del sacrario: luganeghe fumegade, speck e anche la spressa, messa a stagionare. Paoli fa anche consegne gratuite a domicilio per cercare di essere più concorrenziale, infine ha in mente di portare a breve anche una linea di prodotti bio nel suo spazio di vendita. Nel 2010 dell’omologazione dove capita ancora di vedere le luganeghe “tacade su”?

Qualcosa di produzione propria c’è anche alla Famiglia Cooperativa di Caldonazzo, punto vendita della Cooperativa Alta Valsugana. La scelta di avere un reparto bio è nata nel 1991. Decisamente avanguardisti. Manlio Tomaselli, il gerente, spiega come il caso di Caldonazzo sia stato l’unico nel quale una cooperativa ha guadagnato anche dopo l’arrivo di Poli in paese. Il bilancio è in crescita, 7 milioni di euro l’ultimo fatturato annuale.

A Caldonazzo troviamo tutte le verdure della val di Gresta, che però vengono commercializzate dalla Ecor di Villorba (Treviso). E c’è anche uno spazio dedicato alle degustazioni, con un ex dipendente che fa provare il vezzena cimentandosi anche con tedesco ed inglese.

Molto curato anche il reparto vini: si trovano anche la quasi introvabile birra di Fiemme e l’ancor più rara birra di castagna di Marradi (Firenze). La gente apprezza le scelte alternative della cooperativa, tanto che all’ingresso è appeso un cartello che indica gli orari migliori per fare la spesa in tranquillità.

Prove tecniche di valorizzazione

Non c’è unità di intenti nel promuovere i prodotti tipici trentini all’interno della grande distribuzione. Non c’è cooperazione nemmeno all’interno della Cooperazione trentina. La denuncia è di Ivan Odorizzi, direttore di Dao-Conad e presidente di Eurospin Italia. «A giugno 2009 - spiega - è stato convocato un comitato per la valorizzazione dei prodotti tipici. In un primo tempo ne facevamo parte noi e Sait». A luglio 2010 il tavolo però si è rotto: «Sait, Cooperazione ed assessorato hanno convocato per conto loro una conferenza stampa, senza avvisarmi. Un sistema di lavoro che non mi piace, ancora una volta la Federazione ha preferito Sait a Dao, anche se siamo soci entrambi». Il progetto di valorizzazione infatti è partito soltanto per Sait, «E solo - aggiunge Odorizzi - nel punto vendita di piazza Lodron a Trento. Sono stati stanziati 530mila euro ed il risultato è decisamente inferiore alle aspettative».

Prosegue quindi anche nell’ambito dei prodotti tipici il derby nella cooperazione di consumo Sait-Dao. Odorizzi si è dimesso dal tavolo, ma al posto suo entrerà Poli. Mauro Poli si occupa di queste tipologie di prodotti: «Il tipico può essere una nicchia che, se sostenuta, può diventare interessante». Non è immaginabile vedere la farfalla trentina sui prodotti locali, però comunque qualcosa di immediatamente riconoscibile. Anche sul concetto di “prodotti locali”ci sono però differenze. La Provincia spingerebbe sul prodotto interamente trentino, Poli considera prodotti locali quelli realizzati da aziende trentine non necessariamente con materia prima provinciale. «Una scelta fatta per sostenere il valore economico delle imprese locali». Un marchio nero con scritta oro però non è molto visibile... «Non è vero, trasferisce qualità, attenzione e ricercatezza. Impreziosisce la visibilità e questi prodotti hanno un supporto promozionale attraverso i canali classici come siti web o tv». Poli introduce un dilemma interessante sul concetto di tipicità: è un prodotto con materie prime locali realizzato al di fuori della provincia, realizzato in Trentino con materia prima esterna o completamente made in Trentino?

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Commenti (8)

wild1956

Nei casi che citi una logica comunque si intravede. Fare carta non è banale, così come fare tetrapack. Ci vogliono tecnologie e macchinari speciali, materie prime. Per le banane delle colonie francesi, ci sarà sotto qualche accordo commerciale. Ma, tornando ai pomodori olandesi, non può non stupire che un "paese freddo" del nord europa esporti pomodori nel "paese del sole". Parliamo di pomodori, un ortaggio banalissimo. Sarebbe come se l'Italia esportasse banane in India, in Brasile o in Ecuador. Insomma mi pare che non ci sia alcuna ragione al mondo per cui l'Italia debba importare pomodori olandesi. A me pare, oltreché un fatto incomprensibile (sarei davvero curioso di capire come fanno gli olandesi), anche decisamente scandaloso. Ciao :)

medienfriz

non ho probabilmente la risposta esaustiva, ma ti cito un caso che può farti capire come dipenda da aspetti logistici, organizzativi e di economie di scala.
una banca altoatesina ha bisogno della carta per la propria attività. secondo logica diresti: beh va a prenderli da un rivenditore in loco. no, ogni giorno riceve la carta da una cartiera vicino a Parma.
oppure è logico il fatto che il latte trentino nei pacchi da litro venga confezionato a Spini, mentre in quelli da mezzo a Savona?
e ancora. sulle banane che ci sono nei mercati Ue c'è una quota sproporzionata di provenienza dalle colonie francesi d'oltremare. strane politiche del commercio.

wild1956

scusa se insisto ma continuo a non vedere una spiegazione logica. Ammesso e non concesso che sia così per l'Australia, il discorso mi pare non regga per i pomodori olandesi. Suppongo che i lavoratori in loco siano regolari (mica siamo in italia), inoltre il riscaldamento delle serre costa, e costa pure, e non credo poi così poco, il trasporto. Per basso che sia il costo del trasporto e il costo del riscaldamento delle serre, è un costo che comunque i prodotti italiani non hanno! E allora come la mettiamo?

medienfriz

caro selvaggio. i costi "ambientali" non vengono conteggiati nel valore delle merci, poi il costo dei trasporti è ancora molto basso. le cipolle australiane vengono a costare meno perchè probabilmente sono "più bravi" a farle, con efficienza, risparmiando e producendo un qualcosa in linea con il mercato.
viste le concentrazioni nella grande distribuzione organizzata potrebbero esserci anche altre logiche intraaziendali.
ovvio quindi che magari delle cipolle australiane fatte produrre da immigrati cinesi sottosottocosto siano più competitive delle nostre.
il freetrade è un nonsenso perchè distrugge le economie più deboli, non considera il costo socioambientale, ha più senso tra economie allo stesso livello.
almeno questa è l'idea che mi sono fatto dopo un quinquennio alla facoltà di economia.

wild1956

liquidare la questione come un "nonsenso del freetrade" mi pare sbrigativoe ingiusto. Un senso sicuramente c'è, è sarà come al solito economico, anche se continuo a non capire come fanno i pomodori olandesi o le cipolle australiane a costare meno dei gli stess prodotti italiani. Qualcuno me lo spiega per favore??? :)

medienfriz

è il nonsenso del freetrade. Il libero commercio del quale fanno una capa tanta nelle facoltà di Economia.
è un po' come l'acqua minerale che dal norditalia va in baviera quando là hanno delle sorgenti altrettanto buone.

wild1956

Io ancora devo capire, e nessuno mi ha spiegato come sia possibile, come fa l'Olanda a esportare pomodori nel "paese del sole". No dico, l'Olanda!!! I supermercati trentini sono pieni di pomodori prodotti in Olanda. Ma il massimo l'ho visto in Piné questa estate, con delle banalissime cipolle importate... dall'Australia!!! Ma ha senso?

http://img708.imageshack.us/f/cipolleaustraliane.jpg/
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