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La Haydn all’auditorium S. chiara

Un’orchestra visionaria

“Visionaria”. Così Gustav Kuhn, il direttore stabile dell’ Orchestra Haydn, spiega al pubblico la concezione estetica delle opere in programma. Quando l’arte e la vita non possono essere separate, ma necessariamente costituiscono un binomio inscindibile, dove la prima nobilita e dà senso alla seconda, per cui all’opera è sottesa una concezione etica che va al di là del suo valore artistico. E in tempi bui come questi, dove la cultura è considerata un orpello, anche la retorica di certi discorsi ci piace sentirla come necessaria. A pennello calza l’opinione del flautista Giampaolo Pretto che leggevo proprio in questi giorni: “Arte e Scienza sono necessità biologiche dell’uomo, non simpatiche stravaganze cui fare un regalino ogni tanto”

La Musique Funèbre, à la mémorie de Bèla Bartòk del compositore polacco di metà Novecento Witold Lutoslawski è una parabola in tensione continua e mai risolta, un unico sospeso respiro, dove il primo e l’ultimo tempo sono un addensarsi e rarefarsi di linee seriali a canone che nascono e muoiono con la voce solistica del violoncello. Lutoslawski fa da preludio al Concerto per pianoforte n. 3 di Bartòk, ultima delle sue opere e scritto appositamente per la moglie pianista. Lontano delle violente asprezze, soprattutto timbriche e ritmiche, tipiche della produzione dell’autore ungherese, questo concerto incanta per il sapiente incastro di momenti di particolare levità con altri di grande energia dinamica. L’Adagio religioso, incastonato tra primo e terzo tempo, è poi un piccolo gioiello di composto lirismo. Dalla tensione drammatica di Lutoslawski corona questo programma la grandiosa vitalità della Seconda Sinfonia di Schumann.

Ai concerti della stagione alla Filarmonica di Rovereto avevamo ascoltato l’orchestra regionale sbuffando annoiati. Forse più degli orchestrali. Questa volta invece è stata una Haydn di tutto rispetto: presente, concentrata, comunicativa. Sarà stata la direzione di Kuhn (che non si concede mai alla stagione roveretana). E sarà anche stata l’eleganza esecutiva senza troppe smancerie esibizioniste della solista Jasminka Stankul che l’orchestra la cercava sempre occhieggiandola dal pianoforte senza mai perderla di vista, senza mai farle abbassare la guardia.

Peccato solo per l’annoso problema dell’acustica che hanno cercato di risolvere, blandendo il direttore (al tempo della ristrutturazione del Santa Chiara molto critico sulla questione), con un guscio di pannelli di legno a circondare e sovrastare l’orchestra. Inutile, a nostro parere, perché perdendosi a guardare Kuhn c’era sempre qualcosa che non tornava: alla grandiosità del suo gesto non si accompagnava mai un suono che arrivasse diretto, ma che rimaneva invece sempre incollato sul palco. Come ad osservare un concerto in un acquario, dove le onde sonore si perdono ovattate nell’acqua.

Solo con Schumann è sembrato quasi che il suono riuscisse a sfondare quella specie di cappa che lo ingloba sul palco: e a farci sospirare, al termine della gran cadenza finale: “Finalmente”.