Quel pomeriggio, in via Campagnole...
I punti ancora da chiarire nella morte di Stefano Frapporti
Data e ora mettono tutti d’accordo. Stefano Frapporti è stato arrestato il 21 luglio del 2009, poco dopo le 21. È entrato in carcere intorno alle 22.30 e un’ora dopo è stato trovato morto, appeso al laccetto della sua tuta da ginnastica.
Stefano Frapporti: lo spacciatore; quello che alle 18.30 del 21 luglio pedala contromano, a forte velocità, su un marciapiede di via Campagnole a Rovereto. Per i Carabinieri è uno sconosciuto, ma questi decidono ciononostante di fermarlo, per controllarlo, perché stanno facendo un servizio di “osservazione, controllo, pedinamento” (OCP) fuori da un bar di via Campagnole, il “Bibendum”. Gli intimano l’alt, ma Frapporti non si ferma. I militari allora lo inseguono per 50 metri e lo fermano davanti al bar. Lo perquisiscono. Non ha nulla di strano addosso, ma è agitato e spontaneamente dichiara di avere dell’hashish a casa: giusto la quantità per un paio di spinelli. L’hashish viene effettivamente trovato, insieme a della canapa, una volta che la sua abitazione è perquisita. Non un paio di canne, però, ma cento grammi: circa 30 di hashish dove indicato da Stefano, ed altri 60 ben occultati sotto una scarpiera, di hashish diverso dall’altro. Troppa “roba”, secondo la legge, perché si tratti di uso personale. E se non troppa, abbastanza per finire in carcere.
Stefano Frapporti: l’artigiano taciturno. Quello che alle 18.30 del 21 luglio pedala su un marciapiede di via Campagnole a Rovereto e viene avvicinato, nei pressi del bar “Bibendum”, da un carabiniere in borghese, sceso da un’automobile giunta dalla direzione opposta. Il carabiniere gli contesta di essere passato col rosso ad un semaforo, poco prima - di avergli tagliato la strada; così, almeno, riferiscono tre testimoni oculari, avventori del bar. Non lo perquisisce (e perché dovrebbe?), ma lo porta in caserma. E dalla caserma parte poi la perquisizione dell’abitazione di Stefano. Una perquisizione piuttosto accurata, anche se breve (passano appena due ore tra la perquisizione stessa e l’arresto di Frapporti), se i militari riescono a trovare, ben nascosti sotto una scarpiera, 60 grammi di hashish. Una perquisizione, tuttavia, della quale in casa non c’è traccia: tutto è in ordine, persino la polvere sui mobili.
Stefano Frapporti l’artigiano taciturno, o Stefano Frapporti lo spacciatore? Le notizie che rimbalzano su di lui confondono e disorientano: e lo fanno diventare un individuo scorporato e spersonalizzato, la pagina di un giornale, un’entità eterea. Pusher o bravo cittadino. Stefano Frapporti è l’uno? O l’altro? O entrambi? Una cosa è certa, accidenti: è quello morto impiccato.
Domande senza risposta
La differenza tra le due descrizioni dei fatti rimane incolmabile. E di particolari vaghi, confusi tra una versione (quella dei familiari) e l’altra (quella delle autorità), ce ne sono parecchi.
Fra essi, le modalità della perquisizione a casa (che, in circostanze come queste, può avere luogo senza mandato). I Carabinieri, infatti, hanno trovato 60 grammi di hashish (di diversa qualità, va detto, rispetto a quello che Stefano aveva dichiarato di avere e del quale aveva indicato il luogo di detenzione), ben nascosti sotto una scarpiera. Ebbene, hanno dovuto rovistare dappertutto per trovarli, oppure hanno avuto la fortuna di rinvenirli subito? Nel primo caso, perché non c’è traccia di soqquadro, ma anzi l’abitazione di Frapporti è stata trovata dai familiari in perfetto ordine? E nel secondo, perché a quel punto i Carabinieri non hanno insistito con l’indagine, ma si sono accontentati del ritrovamento? In altre parole: si è trattato di una operazione poco attenta, oppure i militari si sono premurati di rimettere tutto al proprio posto, in appena due ore? I Carabinieri, questo è certo, hanno fatto tutto in fretta: al punto che non hanno nemmeno nominato l’avvocato d’ufficio.
Anche le motivazioni e le modalità del fermo non sono ben chiare. I Carabinieri dichiarano di aver inseguito Frapporti per 50 metri, dopo che lui aveva ignorato il loro alt. Ma questo non coincide con quanto sostengono i testimoni: e cioè che Frapporti e i militari sono giunti davanti al bar da direzioni opposte, e quasi contemporaneamente. E che Stefano è stato fermato per un’infrazione al codice della strada (un semaforo rosso), non per essere perquisito nell’ambito del servizio di OCP.
Anche riguardo all’operazione di “osservazione, controllo, pedinamento” non mancano i punti in sospeso. Chi ha ordinato la OCP? Che tipo di organizzazione era prevista per essa? E quali orari? Quali erano i turni? La Procura non ha fatto accertamenti in merito ed ha chiesto l’archiviazione.
Altri interrogativi riguardano poi le circostanze seguite alla morte di Frapporti. Perché Stefano, una volta in carcere, non ha chiamato la sorella Ida? Non ha voluto? Non ne ha avuto la possibilità? E perché la notizia del decesso è stata data ai familiari solo alle 10 del mattino del giorno successivo, anziché tempestivamente?
A quanto risulta, sul corpo di Stefano non è stata messa in atto alcuna mossa rianimatoria. Tuttavia sul suo braccio sono state trovate due tracce di iniezioni, risalenti (secondo il medico legale) alle ultime 48 ore prima della morte. Le analisi non rilevano segno di sostanze stupefacenti iniettate; né Frapporti aveva subito prelievi prima del suo arresto. Dunque, a cosa sono riconducibili le due tracce? Alla somministrazione di un farmaco? All’iniezione di uno psicofarmaco? Frapporti ha avuto un malore? E se sì, perché?
Tutti dicono che all’arrivo in carcere, nonostante la situazione per lui nuova e certamente spiacevole, Stefano fosse tranquillo (e in grado addirittura di fare qualche battuta con le guardie). Lui stesso ha chiesto di poter tenere gli occhiali, per leggere il verbale d’arresto. E allora cosa lo ha portato alla disperazione? Cosa è intervenuto per trasformare la serenità in terrore? È possibile che su quelle carte abbia letto qualcosa di diverso da quello che era accaduto? Qualcosa di inquietante? Qualcosa che lo ha spaventato a morte?
Su molti di questi interrogativi, la famiglia di Stefano Frapporti ha chiesto di fare chiarezza. Ma è notizia di questi giorni che il Giudice per le indagini preliminari ha disposto l’archiviazione del caso, come da istanza del Pubblico Ministero: non ci saranno, quindi, nuove indagini, a meno di una futura (e poco verosimile) richiesta del Pubblico Ministero stesso. E questa storia resterà appesa al suo filo.
Bisognerà aspettare le motivazioni della decisione e vedere la documentazione annessa. Per poter dare all’accaduto una spiegazione che ora proprio non è semplice vedere. Oggi come oggi, è difficile prendere posizione senza che questo diventi ideologico. Del resto, l’ideologia di fondo è difficilmente evitabile, se si è abituati a porsi davanti ai problemi in modo analitico e critico.
È troppo difficile e doloroso ipotizzare che il motivo del fermo fosse stato davvero un banale sgarro automobilistico. Una esibizione di muscoli da parte delle forze dell’ordine. Un esercizio di potere. Una piccola, meschina prevaricazione: un modo per fare paura. Perché ipotizzando questo, sarebbe inevitabile poi pensare che proprio quella paura, andando fino in fondo, avrebbe infine causato la morte di Stefano. Un suicidio, insomma, non privo di colpevoli.
Un dato di fatto: Stefano è morto
E tuttavia vi è un dato di fatto che non lascia spazio all’immaginazione: Stefano Frapporti è morto. In maniera irreversibile. Quali siano state le cause, le considerazioni a monte, le fragilità, quello che resta è un uomo di cinquant’anni appeso ad un laccio. Senza per forza scadere nella retorica più frusta, o in quelle forme di pittoresco buonismo televisivo del quale davvero non si sente il bisogno, non è possibile ignorare e rimuovere dalla propria coscienza il dramma umano. Il gesto estremo è disperato e disperante: arriva quando si è toccato il fondo, quando non si ha speranza, quando ci si sente soli davvero. Non basta la fragilità personale: ci deve essere una scintilla, una goccia, una spina. Come la brutalità del mondo. O come la brutalità di un arresto, la crudezza del carcere.
Il carcere: non si può certo dire che in Italia sia strutturato per riabilitare. Nel nostro Paese, la galera è un contenitore ove ficcare tossici, ladruncoli, immigrati, disgraziati, emarginati: che stiano lontani dallo sguardo, e lascino bianche le belle pareti delle nostre città. L’obiettivo non è reintegrare: è punire da un lato, e dall’altro tenere fuori dalla vista. Non c’è pietà per i diseredati, anche se a diseredarli è stata la nostra buona società; anche se sono figli suoi. La divisione stessa tra bene e male ha preso una direzione incontrollata, sostituita ormai da una più pragmatica separazione tra ricchezza e povertà. Sparare al ladro è cosa buona e giusta, se si è gioiellieri. Rubare al supermercato è peggio che evadere le tasse. La bancarotta non è scippo. La cocaina al ministero va bene, perché è cosa da gente perbene e facoltosa: altro che il “fumo” da hippy, con il quale meriti la sacrosanta gattabuia.
Allora il problema si allarga. E la durezza del carcere si mescola con l’emarginazione di chi, nel sistema, non conta nulla; e con la solitudine prodotta dalla nostra società, dalle nostre strutture. E la storia di Stefano, incrociata a tante altre, lascia cadere su di noi una responsabilità insopportabile. Che si assomma ad una sensazione di inquietudine: perché la legge non è uguale per tutti, e perché un dramma come quello di Stefano Frapporti può colpire, senza distinzione, qualunque cittadino.