Mozambico, palestra democratica
Da Trento a Maputo, a girare un film...
Il Mozambico è un grande Paese in fondo all’Africa. Una superficie tre volte quella italiana, 3.000 chilometri di costa e un terzo della nostra popolazione, metà della quale vive in povertà assoluta. Un Paese in pace, dove la guerra è un ricordo lontano quasi vent’anni.
È proprio questa condizione - eccezione diremmo, con un po’ di timidezza - il motivo del nostro viaggio. La lunga pace, ottenuta e mantenuta dopo sedici anni di guerra civile e con una comunità internazionale che gioca bene le sue carte (bene per gli altri e non bene per sé!), è una tale anomalia da meritare un film. Atterriamo a Maputo, è novembre: inizia l’estate. L’aeroporto internazionale è grande quanto il Caproni di Mattarello, ma la città - capitale - ha più di un milione di abitanti. A Lisbona, prima dell’imbarco, i mozambicani presenti si salutano tra di loro. Si conoscono quasi tutti perché sono pochi quelli che possono permettersi i settecento dollari dell’unico volo settimanale col Portogallo.
Maputo è sgarrupata, piena di traffico e di fuoristrada. Sono giorni di elezioni e i muri sono tappezzati di manifesti. Si scontrano ancora Frelimo e Renamo. Come vent’anni fa, ma senza armi. Il Frente de Libertaçao de Moçambique è il partito socialista che cacciò i coloni portoghesi: “20 per 24” recitava il decreto: 20 chili di bagaglio e 24 ore di tempo per lasciare il Paese. Da allora non hanno mai lasciato il potere. Dall’altra i contendenti della Resistência Nacional Moçambicana, gli ex “bandidos armados”. Pèrdono, ma presentano sempre il loro (solito) candidato e appiccicano i volantini vicino a quelli degli altri. Non sparano più, per ora. Perché, come ci spiega Mario Raffaelli, capo dei mediatori di quella pace che oggi si studia come eccezione, bastano poche ore per vanificare anni di lavoro. “Perché la pace è come la salute, ti accorgi che esiste solo quando manca”. È questo ciò che Raffaelli spiega ai giovani mozambicani nati dopo gli accordi di Roma e a quanti gli chiedono cosa sia in fondo cambiato, visto che la povertà c’è ancora, che ci sono ancora i problemi, e che comandano sempre gli stessi di quando non si votava. “Rispondo anche dicendogli di venire con me a Mogadiscio per qualche ora, per rendersi conto di cosa significhi la pace”.
E in effetti, forse, la loro pace è qualcosa che percepiamo di più noi, giovani italiani cresciuti sapendo quello che un paio di libri e che i 90 secondi del TG delle 20 ci hanno raccontato: che l’Africa è un casino, sempre. Capiamo di più noi, stupiti di vedere nel Kalashnikov che ancora campeggia nel bel mezzo della loro bandiera la cosa più violenta dell’intero viaggio. Ma comprendiamo anche le domande dei giovani a Raffaelli, il loro non capire. Lo stesso forse che ci assalirebbe se ci raccontassero, follia, che l’importanza dell’Unione Europea è anche legata al fatto che ora la Germania non ci invade più e che l’Inghilterra non bombarderebbe più Dresda. “Bisogna studiare”, ci risponderebbe qualcuno. Giusto. E siccome ognuno fa il proprio lavoro, “bisogna fare un film”.
Certo i problemi rimangono, e quando sono materiali, di fame e malattia, lasciano disarmati. Per dieci giorni abbiamo vissuto con la loro “squadra” di produzione. Il regista cinquantenne, mozambicano figlio di colonialisti, impegnato e sensibile, ma con una bella casa e la possibilità di volare. E poi una produttrice, il fonico, un autista e l’assistente dell’operatore. Con loro vivevamo dalla mattina alla sera. Ci venivano a prendere nel nostro albergo a quattro stelle, facevamo assieme le riprese, pranzavamo in qualche ristorante e poi ci riportavano in albergo, la sera. Allora tornavano a casa anche loro, nelle baracche. Capanni di latta o mattoni, con sentieri sterrati e sporchi dove i bambini giocavano scalzi e malvestiti. Distese incasinate e basse che noi conosciamo a colpi di servizi di 90 secondi, ma che loro ci tenevano a mostrarci come “minha casa” - la mia casa -, indicandocela tranquillamente e sorridendo. La nostra emozione non era solo pietà, e nemmeno solo quel sentimento un po’ naïf da occidentali che trovano il senso della vita nell’esotico e nella povertà (altrui). Certo tutto questo era presente, alle volte come vergogna, altre volte come reazione profonda di chi si sente inserito in una società che richiede ambizioni, bella presenza, che induce bisogni. Ed era presente anche come lotta interna, come bilico, di chi questi sentimenti li sente e sente anche la fatica di resistervi o di capire davvero lo iato tra quello che “ti fanno volere” e quello che realmente vuoi. “Perché di un paio di scarpe nere ho bisogno davvero, ho solo quelle marroni e con quei calzoni non le posso mettere. E tanto vale prendere le Camper, perché quelle del mercato non durano niente...”.
Eppure a tratti si prova anche invidia, e per questo non so se vergognarmi. L’invidia della serenità sincera che abbiamo visto in molti di loro, l’invidia del saper dare il giusto peso alle cose e anche l’invidia dell’accettazione. Di chi è capace di mangiare con te al ristorante buono, o di vedere la piscina del tuo albergo, e poi ci tiene lo stesso e sorride nel mostrarti “minha casa”, senza preoccuparsi di sentirsi inadatto o giudicato.