Civica: per cominciare, autocelebriamoci
L’incerto avvio della nuova direzione fra museo e sperimentazione
La prima mostra della “nuova” Galleria Civica di Trento ha fatto nelle settimane scorse molto parlare di sé, guadagnandosi anche le prime pagine dei giornali locali, quasi solo per il muro di sacchi di sabbia pensato da Lara Favaretto attorno al monumento a Dante, tirato su da mani poco esperte e in parte crollato, con la penosa invenzione del sabotaggio. In realtà si tratta non di una ma di una costellazione di mostre dalla quale non si ricava un segnale univoco su dove vuole andare la Civica. All’indomani del traumatico cambio della guardia, con l’estromissione di Fabio Cavallucci seguita all’impropria nomina di un direttore di museo di lungo corso come Danilo Eccher nel ruolo di presidente (nel frattempo nominato anche direttore della Galleria di Arte Moderna e Contemporanea di Torino), ci si chiese quale sarebbe stata la linea e la concezione della nuova Civica: avrebbe rischiato di fare un’inutile concorrenza al Mart?
In un incontro pubblico dei giorni scorsi, presente Gabriella Belli direttrice del Mart, il modo di interloquire tra lei e il nuovo direttore della Civica Andrea Viliani pareva improntato a una certa concordanza sui criteri generali della futura “divisione del lavoro” tra le due istituzioni culturali. Per ora le cose restano in bilico, anche perché una mostra autocelebrativa, quando ciò che si vuole celebrare include idee e pratiche museali molto diverse, non è lo strumento migliore per prefigurare un’identità. La mostra infatti, pur dando spazio ad alcuni interventi di ricerca, ne dà molto ad altri di taglio tradizionalmente museale, a volte più convincenti (Museo Diocesano) a volte meno (Spazio Foyer), dei quali comunque non si sentiva l’urgenza.
I ridotti momenti sperimentali, invece, presentano aspetti interessanti e più vicini a quella che secondo noi è la vocazione della Civica. L’intervento di Favaretto, in particolare, col suo impatto di opera di difesa a metà fra la trincea e l’argine contro un’alluvione, sovrapposta al monumento che contiene già di suo uno storico monito allo straniero, è come un gesto difensivo elevato a potenza. A difesa di che cosa? Ancora dell’identità linguistica e culturale? E poi chi sono i nemici: gli stranieri? I nostri concittadini italiani che mal sopportano i “privilegi” dell’autonomia? O che altro? Insomma, a prescindere dalle spiegazioni verbali, l’opera evoca dei problemi, svolge un suo lavoro di interrogazione, e non è poco.
Detto questo, ci sono però due grossi argomenti, sollevati dagli oppositori dell’arte contemporanea, e della ricerca in generale, che non dovrebbero essere lasciati nelle loro mani, ma, al contrario, essere al centro delle cure della Civica al pari della qualità della ricerca. Il primo è che l’arte deve preoccuparsi del rapporto costi/benefici, come ogni altro servizio, culturale o meno, che viene pagato dai cittadini. Per l’installazione di piazza Dante si parla di centomila euro, di cui trenta messi dall’ente pubblico. È di sicuro una bella cifra, per un’opera destinata a sparire in pochi mesi (“monumento momentaneo”), ma si potrebbe osservare che anche le feste patronali e i fuochi d’artificio, effimeri per antonomasia, costano. Il punto (messo in luce anche da Belli) è che lo spettatore di un’opera collocata in una piazza o in una strada è il passante occasionale, non il visitatore pagante, curioso e motivato, delle sale di un museo. E qui, la capacità di far capire il valore dell’opera dipende da vari delicati fattori, tra i quali, aggiungiamo noi, va data centralità alla proporzione tra mezzi impegnati e risultati. Le spiegazioni, le dichiarazioni di intenti, l’informazione sono tutte cose utili, e non è nemmeno detto che un’idea e un’opera non possano essere capite per gradi, ma l’opera dovrebbe essere di per sé la parte maggiore della comunicazione, inclusa la percezione dei mezzi impegnati.
Accanto a ciò, il secondo tema da non lasciare nelle mani sbagliate, suscitato dal crollo parziale dell’opera, è l’importanza del lavoro ben fatto, qualcosa che non pare andare sempre d’accordo con l’arte contemporanea, dove talvolta è data più importanza all’idea che alla sua realizzazione. Sperimentazione non dovrebbe fare rima con approssimazione. Un conto è la necessaria imprevedibilità degli effetti che un’opera d’arte può produrre in chi guarda (direi che questo è un suo tratto peculiare), un altro le qualità di mestiere che si richiedono qui come in ogni altro campo (non si dice forse “fatto a regola d’arte”?). Si può pensare che, se questi due elementi entreranno nella prassi della Civica, non solo saranno spuntate le armi dei leghisti di turno, ma soprattutto verranno avvicinati altri cittadini al senso del fare arte nel mondo di oggi.
Criticata e criticabile per la forte dispersione dei luoghi espositivi, le scarse indicazioni, l’assenza di un vero e proprio catalogo, gli orari difformi che rendono difficile la vita al visitatore (senza contare un orario di chiusura della sede della Civica, le 17, di sicuro non pensato per chi lavora), la mostra va ad occupare degli spazi senza che si avverta, nella maggior parte dei casi, un coinvolgimento dei soggetti proprietari in nuovi progetti condivisi. Il caso del Museo Diocesano, la cui vicedirettrice Primerano dichiara la propria sostanziale estraneità alle scelte espositive che riguardano l’intero piano terra del suo museo, è emblematico e anche un tantino paradossale. E ciò, a dispetto della qualità delle opere di alcuni mostri sacri quali Fontana, Manzoni, Vedova e Castellani. Qui sì, tra l’altro, la Civica sembra rubare il mestiere al Mart.
Opposto il discorso sulla sala del Buonconsiglio (non le altre opere disseminate nel Castello) reinterpretata da Luigi Ontani, il quale avverte nelle pareti affrescate e nell’atmosfera della reggia principesco-vescovile un terreno ideale per far scattare il suo ludico spirito dissacratore, un dito nella piaga del potere temporale dei vescovi. Un modo, questo sì, ma quasi l’unico, di chiamare un artista, ancorché affermato, a creare qualcosa di dedicato e speciale.
Finiamo con una semplice osservazione su un tema difficile: artisti trentini. I due troni di Vallazza (nella sede di via Belenzani) paiono spaesati, quasi sbrigativo omaggio e promemoria di un problema non affrontato, poiché non si intravedono gli elementi, anche solo in nuce, di una strategia di coinvolgimento e di “provocazione” nei loro riguardi.
P. S. Avevamo chiesto a Viliani un’ intervista, di persona o telefonica. Dopo qualche giorno di silenzio chiediamo notizie e ci viene detto che il direttore preferisce delle domande via mail, insomma domande scritte. Non succede nemmeno con gli assessori, ma pazienza. Gli mandiamo le domande e restiamo in attesa. Inutilmente: il direttore non risponde neanche a quelle. Ora, a parte il fatto che se non voleva fare l’intervista poteva dirlo subito, gli chiediamo: è questo che intende quando parla della necessità (per la Civica) di “migliorare la comunicazione”?