5 aggettivi per le mani di un prete
Franco Stelzer, Matematici nel sole.
Parla di una coppia, Matematici nel sole? No. Bisogna essere più precisi: parla di una moglie e di un marito. Nella storia che ci racconta Franco Stelzer, la donna e l’uomo sono legati da un vincolo che va oltre il sentimento d’amore e oltre la banale sanzione di un’istituzione. Che legami crea, il matrimonio? Che comportamenti pretende? Wif e Hus, i due protagonisti, i due sposi, avvicinano con passione i loro corpi; hanno piccoli e grandi screzi; condividono le faccende domestiche; gestiscono insieme le prove più difficili. Ma il matrimonio, così pare, non sarebbe realmente tale se tutte queste componenti, e il quotidiano più spicciolo, non fossero a continuo rischio di intrusione da parte della poesia. Che si insinua tra due calzini spaiati, o in una copula animalesca; che fa la sua comparsa nella sala d’attesa di un ospedale, dove plana assumendo la forma di un airone immaginato.
Questi lampi improvvisi, queste apparenti divagazioni sono gli elementi che rendono straordinario e imprevedibile “Matematici nel sole”. Franco Stelzer è un autore che certamente divide. Non è per tutti. Per entrare nel suo mondo di parole occorre lasciarsi abbandonare, dare confidenza al racconto, evitare di mostrarsi ritrosi quando lo scrittore arriva a toccare quelle che sono le sue tematiche. Ovvero: i corpi, il sesso, i fluidi innominabili, la mutilazione, il ripugnante... Cui si aggiungono alcune strane, piccole fissazioni, già rintracciabili nei libri precedenti: quella per i ratti fra le prime.
E poi, sopra tutto il libro, aleggia il tema più forte e più difficile da trattare. La morte entra nello spazio intimo e fragile che sta tra i coniugi, scegliendo di colpire il marito, bloccando in un cristallo il passato e il futuro. È proprio questo cristallo a permettere il racconto, a far coesistere i ricordi dei loro primi incontri e le fantasie sulla vita di Wif quando Hus non ci sarà più. Un funerale incombe infatti su tutta la narrazione, dal prologo all’epilogo. Ed è dal prologo che vogliamo citare questo solo esempio di una scrittura - prosa, poesia o prosa poetica che sia: “Quello che sicuramente non vorrei, è che ad accompagnarmi ci fosse la pelle diafana di un qualche prete inutile, dalla voce fessa e la pronuncia affettata, con occhiali dalla montatura in oro, magari con le lenti fumé. Non per via di una qualche divinità, che forse ci segue da tempo - Dio, si sa, è capace di nascondersi in qualsiasi calice, in ogni possibile tartina. No, è per via delle mani. Mani dalla pelle rinsecchita, o peggio umide, grassocce e molli. Mani che non sanno mai - io dico mai - tenersi in disparte e rinunciare”. Diafana, inutile, fessa, affettata, rinsecchita, umide, grassocce, molli...: quanta bellezza, e verità, in questo eccesso di aggettivi.