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QT n. 16, 8 novembre 2008 Monitor

Un buon inizio di stagione

“Il Vangelo secondo Pilato”, con Glauco Mauri un ottimo spettacolo sull'umanità e (presunta?) divinità del Cristo.

Glauco Mauri ha compiuto 78 anni da poco. Vederlo recitare nei panni di un trentatreenne Gesù, con un abito di scena efficace ma lievemente anacronistico, il petto villoso a far capolino dal colletto semiaperto, la capigliatura candida, fa un certo effetto. Ma questo va detto a sua lode, piuttosto che a suo demerito. Si esibisce in scena con un monologo filato di cinquanta minuti, che inizia a ritmo molto sostenuto e che sbalordisce per le capacità mnemoniche, senza intoppi, e la versatilità con cui interpreta Gesù e altri personaggi suoi interlocutori. Calca le scene dal 1949, Mauri, e non sembra fortunatamente ancor sazio di applausi né privo di energie. Quando attori di questa levatura arrivano in città, il teatro che li ospita dovrebbe essere al completo, e invece... Che succede? Vuoi vedere che la recessione colpisce le borse e obbliga gli spettatori a selezionare le spese e gli spettacoli? Oppure il tema trattato, "Il Vangelo secondo Pilato" (nella creazione teatrale di Éric-Emmanuel Schmitt), non attrae il pubblico trentino? Eppure il testo, in Francia, ha avuto un grande successo di pubblico e di critica. In Francia. Ce l’hanno la recessione, in Francia? Chissà, forse il detto "scherza con i fanti..." ha tenuto lontani i cattolici trentini da un’opera in odore di testo apocrifo; ma il teatro è sempre "apocrifo", non dice mai la verità, se non piuttosto vorrebbe stimolare a meditare sulla verità e i suoi derivati. Adriana, la moglie di Pilato, lo dice chiaramente: "Dubitare e credere sono la stessa cosa, Pilato. Solo l’indifferenza è atea". Un aforisma, una frase a effetto, senza dubbio, ma che meritoriamente vuol suscitare la riflessione sulla necessità di avere un’opinione, comunque, e di avere un atteggiamento, scientifico-dubitativo o religioso-fideistico nei confronti dei grandi temi dell’esistenza umana.

La pièce di Schmitt messa in scena da Glauco Mauri e da Roberto Sturno, storico sodale del primo, dal 23 al 26 ottobre, è divisa in due parti: la prima, come già accennato, un monologo di Mauri-Gesù e la seconda, un monologo di Pilato-Sturno, a tratti interrotto dal dialogare con il suo scrivano, ben caratterizzato da Marco Bianchi. La scenografia di Mauro Carosi, essenziale e sobria, simmetrica nei due atti, è costituita da una cornice di tessuto, bianco per Mauri e rosso per Pilato, pendente dal soffitto del palcoscenico e calante obliquamente verso due appositi soppalchi situati ai lati della scena. Qualche oggetto (una candela, un bastone) a disposizione di Gesù, qualche arredo in più per la sala di scrittura di Pilato. Illuminazione efficace, razionale, misurata.

Il monologo di Gesù rappresenta il racconto di un uomo che, incredulo del proprio destino fino all’ultimo, narra al pubblico, con toni realistici, intimistici, colloquiali, la propria adolescenza e maturità di "messia"; di presunto messia, per meglio dire, perché in quell’epoca molti predicatori erranti si autodichiaravano "figli di Dio", senza esser presi davvero sul serio dal popolo, spiega il testo. Il racconto di Gesù mostra al tempo stesso il suo stupore per i ben noti fatti "miracolosi" che gli vengono attribuiti e la natura dei fatti che ne nutrono il ricco curriculum messianico, a causa del quale, complice egli stesso, d’accordo con Giuda, finirà crocifisso. Ama il paradosso, Schmitt: umanizza la figura di Gesù per amplificarne i tratti sovrumani che ne connotano via via, attraverso il racconto, il percorso esistenziale.

A Ponzio Pilato, prefetto romano, Schmitt affida il compito, analogamente, di dubitare della morte di Gesù e di cercare una spiegazione razionale alla sua resurrezione. Ma a convincenti deduzioni investigative, gli vengono opposte dallo scrivano, da sua moglie, dal medico Sertorio, altrettante prove di soprannaturalità che lo sconvolgono e lo spingono a dubitare anche del proprio dubbio.

Al termine dello spettacolo, per esplicita evocazione, nel discorso teatrale e nella mente dello spettatore incombe la suggestione del mistero, irrisolto, della divinità di Gesù. A ognuno di noi, come già spiegato, spetta la libertà di credere o di dubitare.

Un buon inizio di stagione, dunque, per il Santa Chiara, anche se si possono pur fare due piccoli appunti: uno al testo, a tratti troppo evidentemente letterario nonostante la sua intenzione mimetica di linguaggio colloquiale; uno al cortese personale di servizio del teatro, troppo cortese nel lasciar entrare, a spettacolo iniziato, alcuni spettatori che sono scesi mormorando fino alle file basse della platea, in cerca del proprio posto. Lasciarli fuori, magari no – Gesù dice: chi è senza peccato... – ma imporre loro di sedere nelle ultime file fino al termine del primo atto, poteva essere una ragionevole soluzione per tutti.

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