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QT n. 12, 14 giugno 2008 Servizi

Sfuggire alla schiavitù del PIL

Il Festival dell’Economia e il mito irresistibile della crescita.

Misurare il benessere di un Paese attraverso un numero, il Pil (Prodotto interno lordo), che non tiene conto dei nostri gesti quotidiani, delle relazioni che creano qualità della vita e felicità,  ma che bada soltanto ad esprimere con una cifra l’ansia del consumismo, è del tutto grottesco".  Parola di Pierangelo Dacrema, ex operatore di Borsa, ora professore di Economia degli Intermediari Finanziari all’Università della Calabria e autore de "La dittatura del Pil. Schiavi di un numero che frena lo sviluppo", presentato come voce controcorrente ad un festival dell’economia che ha consacrato il mito della produttività e della competizione del mercato.

Pierangelo Dacrema

Rintuzzato dalle affermazioni fintamente politically correct di un economista classico come Giorgio Rodano, che gioca a fare l’avvocato di Adam Smith e dei suoi compagni di merende, il professor Dacrema parte dalla constatazione che le classi politiche di tutto il mondo, almeno di quello cosiddetto "sviluppato", vivono oppresse dal timore di non mantenere una crescita costante del proprio Pil e che sulle piccole percentuali di crescita si giocano grandi battaglie politiche, in particolare durante le compagne elettorali. Eppure quel feticcio tanto inseguito da destra, centro e sinistra è soltanto un numero che sintetizza brutalmente tutto ciò che è merce e che ha generato una transazione in denaro nell’arco di un anno all’interno di uno Stato.

Quindi, il Pil aumenta grazie alla vendita di un maglione, ma anche grazie al consumo di benzina, alle sbronze del sabato sera e pure all’intervento del carro attrezzi che recupera la macchina con la quale lo sbronzo di cui sopra si è appena schiantato. Il Pil, dunque, come tutte le cifre ha valore quantitativo, non qualitativo. Indica le transazioni economiche delle merci, non se quelle transazioni generano benessere alla popolazione.

Per questa ragione Dacrema condanna la schiavitù delle nostre nazioni al Pil. E coglie l’occasione per criticare un modello economico che lui stesso definisce "ossessivamente osannato", cioè quello consumistico statunitense, che dalla caduta del muro di Berlino si è proposto come unico modello vincente. Dimenticando che quel modello ipercompetitivo, sono parole di Dacrema, "ha generato ansie e causato tragedie, senza essere in grado di soddisfare i bisogni primari della maggioranza della popolazione mondiale".

Festival dell'Economia al Teatro Sociale.

Ciononostante verso quel modello tutti si dirigono lancia in spalla, informazione compresa, che ogni giorno attraverso i telegiornali e i quotidiani semina il panico per un punto percentuale di crescita in meno. Vero e proprio killeraggio psicologico, degno di una società miope. Oppure, secondo la definizione del professore, di una società "puerile" che rincorre la velocità e che si è illusa di poter raggiungere il piacere attraverso il denaro, stracciando le relazioni interpersonali.

La società puerile di Dacrema ricorda molto quella "bambina" descritta dall’economista Mauro Bonaiuti, intervenuto recentemente alla Settimana della decrescita organizzata dal Comune di Arco. Una società, cioè, che ha rotto il senso del limite e che ha dimenticato che le leggi della natura e della nostra psiche si fondano sull’equilibrio e non sull’idea schizofrenica di una crescita illimitata sostenuta da consumi crescenti, e che poi si strugge di fronte alle conseguenze di questo sistema: inquinamento, rifiuti, impoverimento della terra. E che si allarma alle sirene dell’emergenza continua, chinando il capo però alla legge del profitto. Lo stesso Dacrema, del resto, di fronte alla nostra domanda se la sua fosse una proposta vicina al modello della decrescita, si è schermito, balbettando che il destino dell’uomo sta nel progresso e nella crescita, non riuscendo però a spiegare come sia possibile coniugare il progresso economico con la critica che lui stesso ha mosso al sistema fondato sulla schiavitù del Pil. Incoerenza dettata, forse, dal timore irrazionale che decrescita significhi povertà. Niente di più assurdo.

D’altra parte, per usare una metafora, se abbiamo un martello al posto del cervello, tutti i nostri pensieri avranno forma di chiodo. E le emergenze saranno solo ottime scuse per cagarsi addosso, senza mai fare la fatica di abbassarsi i pantaloni.