Elogio della decrescita
Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena. Bollati Boringhieri, pp. 135, 9.
Dei bisogni alcuni sono naturali e necessari, altri naturali e non necessari,
altri né naturali né necessari, ma nati solo da vana opinione - Epicuro -
Il nuovo saggio di Serge Latouche è una pietra miliare del pensiero anticapitalista e antiproduttivista. In poco più di 120 pagine il filosofo-economista francese espone con chiarezza i capisaldi del nuovo immaginario della decrescita, offrendo esempi concreti di modelli locali di azioni virtuose. L’impianto teorico del saggio si dipana pagina dopo pagina con notevole intensità concettuale, costringendo il lettore ad abbandonare la consueta prospettiva secondo cui l’unica cosa davvero importante è che ci sia sempre una merce da produrre e da vendere, invitandolo, al contrario, ad adottarne una nuova.
Per Latouche il nostro sistema economico non è più accettabile. In particolare per due ragioni. Anzitutto perché l’ecosistema terrestre è incapace di sostenere una crescita infinita, dal momento che il suo spazio e le sue risorse sono finite e sono soggette ad un fragile, quanto vitale, equilibrio. In secondo luogo perché "l’ipocrita droga produttivista" mina lo stesso benessere psicofisico dell’uomo, privandolo della serenità, della gioia di vivere e di godere, costringendolo a diventare schiavo delle merci e soprattutto del loro incontrollabile desiderio, alimentato ad arte da chi grazie a questo modello accumula profitti e tiene le redini delle sorti della comunità umana.
Alla luce dell’utopia concreta latouchiana, sembra passato anche il tempo dei rivoluzionari comunisti, storicamente incapaci di affrancarsi da un sistema dogmatico e di rispondere con adeguatezza ai bisogni dell’uomo. Bisogni che, nel mondo produttivista dei comunisti e dei capitalisti, sono per lo più fittizi e generati soltanto per tenere in piedi un’economia dei consumi priva di senso. E’ giunto il tempo, invece, di recuperare il concetto di limite e di costruire, partendo necessariamente dal proprio territorio, un sistema economico alternativo, che riduca gli sprechi, abbatta i consumi (soprattutto quelli "intermedi" come trasporti, energia, imballaggi e pubblicità) e che faccia, di conseguenza, dell’autonomia una parola d’ordine. Autonomia nel senso di ricercare in sé le risposte alle proprie necessità, riducendo la dipendenza dai flussi di merci e capitali gestiti dalle multinazionali, senza alcun rispetto per la dignità dell’essere umano (lavoratore/consumatore) e dell’ambiente che lo ospita.
Per questo Latouche rispolvera un termine che magari farà sobbalzare sulla sedia i sinistrorsi ormai abituati ai salotti buoni della finanza: protezionismo. Se non si proteggono le ricchezze locali, si cade necessariamente in balia di un mercato globale tutt’altro che democratico, e capace, invece, di generare situazioni che violentano il buon senso, come ben esemplificato dal caso delle aragoste scozzesi che, pescate nel Mare del Nord, vengono spedite (inquinando) in Thailandia per farsi pulire a mano da operai semischiavizzati e poi ritornano ancora in Scozia (re-inquinando) per essere cotte prima di finire sui banconi dei supermercati di mezzo mondo con il marchio Findus. Per non parlare dell’aberrazione di un mercato che attualmente costringe Paesi come la Somalia o l’Etiopia, in piena carestia alimentare, a dimenticare la propria gente e a concentrarsi solo sull’esportazione degli alimenti utilizzati per mantenere i nostri animali domestici.
La politica della decrescita non è di destra, insiste Latouche, perché non discrimina nessuno, anzi, tiene a cuore il benessere psicofisico dell’intero genere umano, combattendo un sistema iniquo e dannoso. Ma non è nemmeno una prospettiva di sinistra, se per sinistra intendiamo una politica produttivista "moderatamente" selvaggia o un sistema comunista altrettanto schiavo del dogma della crescita. Eppure, a pensarci bene, se il compito della sinistra fosse quello di contribuire alla costruzione di un mondo nel quale tutti possano soddisfare i bisogni elementari, senza soffocare, senza perdere il gusto della convivialità, del riposo, del piacere e del godimento delle piccole cose, vivendo in modo più lento, più profondo e più dolce, il saggio di Latouche potrebbe essere il nuovo "Manifesto"