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QT n. 21, 7 dicembre 2007 L’editoriale

La difficile sicurezza

La crisi della giustizia, il sistema repressivo ridotto a colabrodo, l’imperativo della sicurezza. E così ci si appresta a convivere con la grande criminalità, e non sopportare quella minore.

Non credo che sia una questione assillante dalle nostre parti. Ma nelle grandi città, nelle zone metropolitane il problema della sicurezza è percepito come importante. Tanto che il governo ha messo mano ad un provvedimento per farvi fronte. C’è però attorno ad esso molta emotività, una buona dose di retorica e un alto grado di confusione. Ciò che aiuta poco a risolverlo.

Già esiste un testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, ma evidentemente non basta. E’ un reperto normativo di antica data, aggiornato dopo la fine della guerra ma a quanto pare non adeguato ai tempi di oggi. Anzitutto occorre mettere a fuoco il problema, definirlo nei suoi termini specifici che suscitano l’allarme di cui troviamo l’eco nelle cronache. Esso è rappresentato dall’aggressione alla integrità fisica e patrimoniale delle persone realizzata da atti di violenza illegale.

Dunque non riguarda l’illegalità diffusa che domina in alcune regioni d’Italia, come la mafia, la camorra, la ndrangheta, la sacra corona unita, con le loro diramazioni su tutto il territorio nazionale ed anche oltre i confini dello Stato. Questa imponente illegalità ha un suo interno ordinamento, che si contrappone a quello dello Stato, spesso con esso collude corrompendolo, ma le sue violenze sono rigorosamente selezionate e perfettamente funzionali al disegno criminoso complessivo di estorsioni, appalti truccati, traffici illeciti.

Non si considerano minacciose per la "sicurezza pubblica" nemmeno le illegalità dei colletti bianchi, le corruzioni, i peculati, le concussioni, le malversazioni, i falsi in bilancio, le bancarotte, che anzi sono considerate con una certa indulgenza perché prerogativa dei ceti dirigenti.

Nemmeno possono ritenersi offensivi della pubblica sicurezza gli sconcertanti crimini, così numerosi, che esplodono nel privato più intimo, dentro le famiglie. Essi nascono e si consumano nel chiuso delle mura domestiche, e pubblico è solo il turbamento che provoca la loro conoscenza.

La sicurezza pubblica è insidiata dalla microcriminalità, che però non è sempre minima nella sua esecuzione e nei suoi effetti. Le rapine compiute da gruppi di professionisti del malaffare non sono qualificabili come microcriminalità, perché presuppongono una organizzazione accurata e causano effetti rilevanti e spesso cruenti.

Accanto alla criminalità professionale vi sono poi numerose altre manifestazioni di violenza che generano insicurezza e diffondono panico. Nelle zone periferiche delle grandi città in certe ore del giorno è rischioso andare per strada. Vi risiedono "balordi", persone senza lavoro né altre radici sociali, vi circolano gruppi eccitati dall’alcool o da spirito di branco; una donna sola può essere preda di una bramosia selvaggia. Sono questi i veleni che allignano in una società ineguale che emargina i soggetti più deboli o meno dotati, appesantita dal concorso di immigrati delusi nelle loro speranze di trovarvi fortuna.

Ma non è solo la condizione economico-sociale che genera l’istinto trasgressivo. Pensate alle masnade di tifosi che senza alcuna ragione trovano ogni banale pretesto per scatenarsi in violenze di massa fra di loro o contro le forze dell’ordine. Pensate, e ciò è ancora più preoccupante, ai fenomeni di bullismo giovanile che si accanisce contro inermi compagni di studio o contro la scuola ed i suoi simboli. Che fare?

Si blatera: galera, certezza della pena, espulsioni, basta con le scarcerazioni facili, tolleranza zero! Vero è che il nostro sistema repressivo è un colabrodo. Processi lenti, un codice penale a prima vista feroce ma poi sfibrato da innumerevoli marchingegni che ne smussano la severità: la condizionale, il perdono giudiziale, il rito abbreviato, il patteggiamento, le attenuanti, le misure alternative, i condoni. Ma l’esperienza dimostra che anche pene severe e certe non bastano a garantire la sicurezza pubblica. Negli Stati Uniti, dove appunto le pene sono pesanti ed applicate, la sicurezza non è migliore che in Italia. Così le espulsioni, inevitabilmente di quantità limitata, non saranno risolutive, perché non colpiranno tutti i potenziali aggressori stranieri e non potranno essere applicate a quelli nostrani. Difficile, se non impossibile, è prevenire, cioè individuare e neutralizzare il colpevole prima che il reato sia commesso. Sarà già un miracolo impedire la recidiva. E ciò perché abbiamo voluto un ordinamento rispettoso dei diritti umani. La repressione esige prove certe di un reato compiuto. E’ inammissibile perseguire taluno sul mero sospetto che delinquerà. Già Beccaria ci aveva insegnato che è preferibile la libertà di un colpevole piuttosto che la prigione di un innocente.

Qualcuno aveva prospettato che con la mafia si debba convivere. Penso che sia meno inquietante l’ipotesi che si debba convivere con la microcriminalità, a scapito anche della nostra sicurezza.