Il volo di Natascia
La realtà e i desideri di una badante ucraina.
Natascia annuisce sorridendo, quando le dico che domenica scorsa, al Parco Santa Chiara, ho visto le sue "compaesane con la gallina sottobraccio". Sa che è un mio richiamo scherzoso per introdurre l’argomento, l’allegoria della contadina russa tolta dal mio immaginario.
Del resto come non notarle? Dalla mia panchina, distolta dal loro chiacchierare fitto, alzavo ogni tanto lo sguardo dal libro per osservarle pranzare insieme su un tavolo del parco. Con animo femminista ammiravo compiaciuta che erano un gruppo solo di donne che non erano affatto sole!
Anzi: dimostravano molta sicurezza, sfidando gli sguardi stupiti dei passanti, quando una di loro, finito di pranzare, estraeva le forbici, e tagliava i capelli ad alcune delle sue amiche. Stesso identico taglio, stile retrò comunista. Operazione molto intima compiuta in un posto inconsueto. Una sfida al nostro perbenismo, al nostro lusso che ci fa rinchiudere in un salone e pagare profumatamente per avere sì un taglio esclusivo, ma privo del calore umano compiuto da una mano amica.
La figura della badante dell’est ha conosciuto molte traversie nell’ultimo lustro. Si è passati velocemente dalla "schiava" senza alcun potere contrattuale e costretta a vivere giorno e notte con i nostri anziani, alla "badante fattasi furba" che conosce così bene i suoi diritti da far impallidire di sdegno molte donne.
Sicuramente è il rapporto tra donne, le nostre e le loro, che risulta spesso conflittuale; la mancanza di fiducia tra le parti passa ovviamente attraverso la cultura personale. Più abbiamo un piede nelle tradizioni, nel passato, meno accetteremo che sia un’altra donna, venuta da lontano, a sostituirci in quelli che riteniamo ancora i nostri doveri femminili d’assistenza familiare.
Siamo proprio noi donne a risentire maggiormente dei cambiamenti sociali; il problema "anziani", per esempio, non esisteva una volta (fino a 30, 40 anni fa), perché veniva risolto all’interno della famiglia patriarcale. Allora c’era sempre qualcuna delle numerose figlie, o qualche nuora eroica, che si assumeva il compito di assistere i genitori anziani che si ammalavano e non erano più autonomi. Adesso le numerose figlie sono diventate una, le nuore eroiche sono, giustamente, finite ed allora a noi donne non rimane che delegare alle badanti l’assistenza dei nostri genitori.
Intelligenza, a questo punto, sarebbe adattarsi ai cambiamenti intervenuti senza opporre troppe resistenze, imparando a fidarsi di queste straniere che fanno quello che non possiamo più fare. Senza trasformare la badante in un nemico, dando seguito a leggende metropolitane che s’ingrandiscono velocemente: "Comandano loro in casa nostra! Hanno due ore libere ogni giorno, tutta la domenica e le ferie pagate; e non sono contente! Sono spesate, non pagano l’affitto, mangiano gratis, però pretendono gelato e fragole a gennaio!" E via dicendo.Fra loro ci sono ottime persone, come fra noi. O pessime persone, come fra noi.
La storia di Natascia è simile a quella delle tante altre donne emigrate dall’est; s’impara a stimarla conoscendone la nobiltà d’animo che la priva di doppiezza e che si rivela in quelle ore che viene da me a stirare, ormai da quattro anni.
Nazionalità ucraina, nata e vissuta ad un centinaio di chilometri da Chernobyl (di questo non si parla, è un dolore angosciante che va rispettato). Di mezza età, vedova con una figlia ormai grande che l’ha resa nonna di Ivàn, il nipotino adorato che è il motivo che l’ha spinta, sette anni fa, a cercar lavoro all’estero per dare una speranza al "piccolo bambino", come lo chiama.
Una mattina, nel loro paese si sono svegliati poveri, senza soldi perché quelli in banca erano completamente svalutati. Laureata, insegnante di matematica, aveva sì un lavoro fisso, ma poi cominciarono a non rispettare più il giorno di paga, a pagare una parte dello stipendio con viveri alimentari. La miseria faceva molta paura e aumentava velocemente e allora ha deciso di emigrare per aiutare tutta la sua famiglia patriarcale; era la meno debole.
E’ venuta a Trento pagando mille euro ad un autista/scafista, per il trasporto con il famoso pulmino che impiega tre giorni e con un permesso turistico in tasca. Ovviamente è senza lavoro, senz’alloggio e non conosce una parola d’italiano. La sua prima occupazione sarà come tuttofare in un albergo dove fa la schiava per 15-16 ore il giorno e subisce le molestie sessuali del proprietario.
Il secondo lavoro è come badante di un’anziana signora che ha la mente assente per via dell’Alzheimer. Ci penseranno le sue due figlie adulte, sposate e ormai fuori casa, a trattarla come la loro serva. Vengono ogni giorno a far visita alla madre - che ormai passa le notti in bianco gridando, deve essere guardata a vista, imboccata, lavata e cambiata perché si fa i bisogni addosso – e già che ci sono le fanno preparare il pranzo o la cena anche per le loro famiglie. Controllano se la casa è pulita a dovere, se c’è polvere sopra gli armadi, e come regalo le portano i loro panni sporchi da lavare, aggiustare e stirare… così, tanto perché non si annoi.
Questi sono i suoi primi dieci mesi di vita in Italia. Arrivata a questo punto del racconto mi vergogno d’essere italiana, dell’imprinting e poi della gran delusione che altri italiani le hanno dato. I lavori che farà dopo sono tutti molto faticosi, umilianti, avvilenti e di uno solo ricorda l’umanità ed è ancora grata a quella famiglia trentina. Tristissima vita la sua, qui da noi. Non ci daranno la palma d’oro per l’accoglienza!
Allora quando viene da me le metto il cd che le piace, "Il volo di Volodja" con i testi scritti da Vladimir (Volodja) Vysotskij, poeta e cantautore russo ignorato e boicottato dal regime e costretto all’esilio, ma molto amato dal popolo sovietico che, quando morirà nel 1980, lo farà diventare un mito. Le s’inumidiscono gli occhi, quando sente la voce di Volodja cantare in russo.
In lei cerco le cose che ci uniscono, non le diversità, perché so che è uguale a me, ha la stessa mia sensibilità, le stesse emozioni, soffre per le stesse cose, ha lo stesso amore per la sua famiglia, aumentato da una gran nostalgia. Di suo padre, per esempio, morto mentre lei era qui da noi a curare un papà non suo e del quale conserva la fotografia accanto a quella di suo padre.
Di suo madre, che adesso è anziana e teme possa morire senza di lei. Del suo nipotino che diventa grande e che forse si dimenticherà di lei.
"Vedrai, Natascia, - e glielo dico per sdrammatizzare - forse fra vent’anni tua figlia dovrà chiamare una badante, magari italiana, per accudirti.
"No, Nadezhda - mi risponde - Noi i nostri vecchi li amiamo e li curiamo fino alla fine". Annuisco sorridendo, contenta di essere per lei una speranza (Nadezhda) di nome e di fatto.