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Donne, cucina e ricettari

La riscossa femminile nei manuali di gastronomia.

Quinto Antonelli

Partiamo dal dato significativo che in Italia per trovare un libro di cucina scritto da una donna, dobbiamo attendere il 1900. Mentre altrove, in Germania e in Austria, i testi di cucina di mano femminile sono presenti a partire almeno dal 1600.

Katharina Prato

I manuali italiani e francesi sono scritti da uomini, a uomini si rivolgono e di uomini parlano: scalchi, trincianti, credenzieri. Forniscono indicazioni e ricette prevalentemente per le cucine delle dimore più nobili e ricche e allo stuolo di servitori addetti a cibi e vivande che in tali case si affollava. Insomma in età moderna (ma solo in Italia e in Francia) nelle famiglie delle élites la preferenza per i cuochi maschi è largamente diffusa.

La femminilizzazione del personale di cucina è un processo lento: a Bologna nel 1850 le cuoche, definite tali o cuciniere, sono il 2% degli addetti a cibi e vini; nel 1857 il 10%, nel 1899 il 48%.

Non è dunque un caso che il primo manuale di cucina, largamente diffuso in Italia, scritto da una donna e indirizzato alle cuoche, principianti o già pratiche, provenga dall’Austria.

“Die Süddeutsche Küche” di Katharina Prato viene pubblicato originariamente a Graz nel 1858. E di Graz è l’autrice, nobildonna nata nel 1818 come Katharina Polt. Dal cognome del primo marito, Eduard Pratobevera, toglie quello che diventa una sorta di pseudonimo, “Prato”, che mantiene anche quando, vedova, si risposa con Johan Scheiger.

Nel 1892 l’editrice Styria di Graz pubblica l’edizione italiana del volume con il titolo: “Manuale di cucina per principianti e per cuoche già pratiche”, riveduto ed accresciuto da Ottilia Visconti Aparnik, maestra di cucina al corso di economia domestica presso il Civico Liceo femminile di Trieste.

Il Manuale già all’origine ha una doppia destinazione, da un lato le “donne di casa” (così nella traduzione italiana, ma saranno da intendersi come le donne addette alla casa borghese e nobile), dall’altro i vari professionisti della cucina. A queste due se ne affianca una terza nell’edizione curata dalla Aparnik, che in quanto insegnante enfatizza l’aspetto (e l’apparato) didattico-informativo: nozioni preliminari, spiegazioni dei termini di cucina, glossari. Il Manuale, che aveva avuto una larga diffusione nel mondo tedesco, gode di una grande fortuna anche in Italia: è adottato nei corsi di economia domestica, ma lo si ritrova anche nei piccoli alberghi di montagna e si riflette persino nei manoscritti ricettari popolari.

Il primo manuale italiano scritto da una donna, giunge poco dopo l’edizione triestina della Prato: è un volume di Giulia Ferraris Tamburini, pubblicato dall’editore Hoepli nel 1900 con il titolo “Come posso mangiar bene?”.

Il volume esce nella collana “Biblioteca delle Famiglie” e si affianca al libro della stessa contessa Ferraris “Come devo governare la mia casa?” (1898). Rispetto al Manuale della Prato, che ancora si rivolge ai professionisti, qui ci troviamo in un ambito del tutto diverso, in quello di una “domesticità” borghese, dove la signora (padrona di casa), per quanto elegante e sofisticata, non doveva disdegnare di saper fare un semplice pranzo e certamente doveva possedere la competenza indispensabile per sorvegliare la servitù, impedire frodi nelle spese ed evitare alimenti (e condimenti) nocivi alla salute.

La filosofia della cucina qui imperante è ridotta, secondo i canoni positivistici di fine Ottocento (i medesimi che avevano ispirato “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi, edito nel 1891), all’ordine economico da un lato e a quello fisiologico dall’altro. Ma diversamente dall’Artusi, la Ferraris ha un compito in più, inerente al ruolo della donna nella società e nella casa.

Già nell’introduzione la Ferraris inaugura quello stile che si farà via via più confidenziale, da donna a donna che segna i ricettari femminili e che li distingue da tutti gli altri. La complicità riguarda certo il ruolo femminile, i doveri casalinghi della donna (la donna che cucina per la gioia dei familiari; il far la cucina come “poesia”, la poesia della famiglia, come si esprimevano i giornali femminili borghesi di fine Ottocento), ma riguarda soprattutto il maschio di casa, il marito che va ammansito, sedotto e reso “domestico” con il cibo.

Ma veniamo allo specifico. Con le ricette ordinate alfabeticamente (da acciughe a zucchini) il ricettario della Ferraris ha più l’spetto di un dizionario degli alimenti: un ordinamento che in parte obbedisce ad una impostazione editoriale, ma che in definitiva è congeniale anche allo scopo di natura igienico-sanitaria che la Ferraris si ripropone. E’ questa una cucina che nutre, e che cura i malati e li può risanare, come confermano altri ricettari femminili dal titolo ancor più esplicito, pubblicati nel decennio successivo: “L’infermiera in cucina” di Angelica De Vito Tommasi, o “La Cuoca medichessa” di Donna Clara (pseudonimo di Lidia Morelli).

Sarebbe sbagliato pensare a questi ricettari femminili come a prodotti episodici e solitari. Non solo a sostenerli c’è un senso comune diffuso, un clima culturale, ma esistono anche intenzionalità meno indefinite, luoghi di confronto e di messa a punto di strategie educative.

Uno di questi è la “Rivista per le Signorine”, quindicinale edito a Milano dall’editore Cogliati a partire dal gennaio 1894. La rivista è diretta fino al 1913 da Sofia Bisi Albini (1856-1919), che alterna una vita professionale nel mondo della scuola milanese ad una vivace attività giornalistica, alla stesura di romanzi per giovinette e di testi per l’infanzia.

Le collaboratrici della rivista provengono da mondi diversi, da quello letterario, come la stessa Bisi Albini, Lina Schwarz, Grazia Deledda; dal movimento cattolico più inquieto legato al modernismo e al murrismo come Antonietta Giacomelli, o al femminismo cristiano come Luisa Anzoletti. Ma alla rivista collabora pure Emilia Mariani, socialista e “femminista rigorosa”, anche se non sarà lei a segnare la linea della rivista. Che è, in tutti i casi, moderatamente incline a formare perfette donne di casa (ma socialmente sensibili e, nel caso, in grado di reggere la solitudine e di intraprendere perfino qualche lavoro come le signorine inglesi ed americane, elogiate più volte dalla rivista).

L’igiene, l’economia domestica e il galateo sono le uniche rubriche fisse della rivista. Vi scrive Angelica De Vito Tommasi che qui persegue una sua linea di razionalizzazione gastronomica, volendo innestare sulla cucina tradizionale i risultati della scienza dell’alimentazione. Un progetto pedagogico da attuare attraverso la rivista: crescere “buone ragazze razionalmente educate, utili al babbo che lavora, alla madre che cresce i piccolini, e a sé, per l’avvenire!”. Così, economia ed igiene si trovano anche nel ricettario che darà alle stampe dieci anni dopo con il “Libriccino di cucina popolare”, ulteriore tappa del suo progetto educativo.

Nel 1896 alla De Vito Tommasi si alterna a firmare la rubrica La pagina della vita domestica, Giulia Lazzari Turco con lo pseudonimo Il grillo del focolare, citazione quasi programmatica di quel dickensiano “racconto casalingo di fate”, dove il focolare, appunto, da “mucchietto di pietre, di mattoni e di ferro arrugginito” diventa “l’altare della casa”.

Giulia Turco (1848-1912), baronessa trentina, sposata con il musicista veneziano Raffaello Lazzari, proviene, oltre che dal medesimo territorio, dallo stesso ambiente culturale e religioso della Anzoletti e della Giacomelli. Ma diversamente da loro sviluppa anche un interesse naturalistico che la porta a lavorare con il micologo Giacomo Bresadola. La collaborazione alla “Rivista delle signorine” coincide con nuovi interessi educativi e letterari che sfoceranno, alla lunga, in racconti e romanzi, pubblicati con lo pseudonimo di Jacopo Turco.

Qui, sulla rivista, scrive per signorine che l’estate possono recarsi in campagna o al mare, o intraprendere un piacevole viaggio, alle quali suggerisce buoni comportamenti, atti di carità, la coltivazione dei fiori, la raccolta di piante medicinali e, in particolare, la stesura di un loro personale libro di cucina. A tal fine la sua “pagina” termina sempre con “qualche facile ricetta”.

Così la nobildonna Turco (che vive fra Trento e Venezia) ai suoi più consolidati interessi culturali (è una scrittrice sulle orme di Fogazzaro) aggiunge, in questi ultimi anni del secolo, anche quello di gastronoma. Un impegno che prende molto seriamente come testimoniano i ricettari manoscritti (che danno conto di una vasta ricerca bibliografica e “sul campo”) e un interessante carteggio tenuto tra il 1899 e il 1901 con Pellegrino Artusi.

Pellegrino Artusi

Nel 1904 pubblica un manuale con 3.000 ricette e 150 disegni intercalati nel testo intitolato “Ecco il tuo libro di cucina. Manuale pratico di cucina, pasticceria e credenza per l’uso di famiglia”. Anonimo (ma immediatamente riconosciuto come suo), rimanda semplicemente all’esperienza di “una donna italiana” che lo dedica, memore della “Rivista per le signorine”, alle “fanciulle e alle giovani spose”.

Sul frontespizio, una sintetica epigrafe riprende la filosofia della “domesticità”: “La vera poesia della vita femminile è lo studio di gradire anche nel modo più umile i propri cari”.

Nello specifico, nonostante lo scambio epistolare con l’Artusi, la cucina della Turco è ben lontana da quella scienza e da quell’arte moderna e leggera che non ammettevano più travestimenti. Viceversa la Turco rimane fedele ad un modello di cucina ancora ottocentesca, grassa e greve di spezie, con preparazioni complicate e lunghissime, con pietanze poco, o troppo saporite.

L’accoglienza da parte della stampa è però positiva. In Trentino il libro è letto politicamente, inserito nella “questione nazionale”: il quotidiano liberale “L’Alto Adige” rileva come il Manuale sia “un’opera buona e patriottica”, perché “squisitamente italiana”. “Il nostro libro è tutto un profumo di patria trentina e italiana, è un fiore delle nostre Alpi educato dall’esperta mano della donna tridentina…”.

E’ un Manuale che si oppone ad un altro, a quello della Prato: un’accozzaglia di note e insegnamenti esotici tradotti nel più “barbaro gergo”. Diventa, questa, una condivisa chiave di lettura: la contrapposizione nazionale che segna la vita pubblica nei territori italiani dell’impero austro-ungarico e ne rafforza le identità passa anche attraverso la cucina.

Ma la recensione più importante e impegnativa appare sul “Popolo”, il quotidiano socialista fondato e diretto da Cesare Battisti. La scrive Enrica Sant’Ambrogio Piscel (intellettuale e giornalista veronese, curiosa e versatile, moglie di Antonio Piscel, avvocato leader con Battisti del partito socialista trentino) cui dà un titolo programmatico: “Un bel libro che c’è e un buon libro che manca”.

Il bel libro è appunto questo della Turco, il buon libro che manca è “un manuale di cucina semplice, poco costoso e pratico per le famiglie operaie”. Poiché, come sostiene la Sant’Ambrogio, le ragazze del popolo sono sempre più “ignare del modo di reggere una famiglia e di provvedere al suo sostentamento con quegli scarsi mezzi che sono consentiti dai bassi salari”, un manuale con ricette poco costose porterebbe il suo piccolo contributo.

La recensione si chiude con un riferimento preciso alla pellagra che allora (in ritardo rispetto al Veneto e alla Lombardia) stava seriamente colpendo il Trentino: sotto accusa è, come si sa, l’alimentazione prevalentemente o quasi esclusivamente maidica. Scrive la Sant’Ambrogio: “Il bandire la crociata alla polenta nei nostri paesi è opera sacrosanta; ma non è opera compiuta, se non si può indicare ai poveri qualche cosa che la sostituisca, senza portare un troppo grave sbilancio alle modeste finanze familiari”. In conclusione il buon libro che ancora manca dovrebbe essere fatto “con buoni intenti d’igiene, di economia e di praticità”.

La sfida è davvero raccolta dalla Turco, che quattro anni dopo pubblica un ricettario assai più contenuto (214 pagine): “Il Piccolo Focolare. Ricette di cucina per la massaia economa”.

Il piccolo ricettario è destinato esplicitamente alle classi lavoratrici, alle operaie che escono dalla filanda, alle contadine che lavorano da mane a sera: a quel popolo “misoneista in fatto di cucina”. I contadini “che hanno il ben di dio al sole, ma, fedeli al paiolo tradizionale della polenta, non sanno nemmeno come si allestisca un po’ di brodo per un ammalato”.

Il libro obbedisce ad un progetto pedagogico che era anche della De Vito Tommasi: rendere più razionale e più sana la cucina popolare. Certo, c’è negli intendimenti un atteggiamento paternalistico e un ruolo educativo per gli intellettuali, ed inoltre, una concezione del popolo come “assenza”.

Di nuovo, igiene (mani pulite, bollitura, sterilizzazione) ed economia sono i due criteri ordinatori del ricettario. Che si apre, non a caso, con il pane. Un’apertura coerente con il complessivo progetto governativo del “Fondo pellagra”, che proprio in questi anni incentiva la costruzione di forni, la produzione e il consumo di pane venduto a basso costo. L’insistenza sul pane ritorna anche nei capitoli successivi, con le zuppe di “panbollito” che altro non sono che versioni pulite della tradizionale panada. Le ricette qui si fanno svelte svelte: fa la sua comparsa l’estratto Liebig che può anche essere sostituito con “un cucchiaio o due di estratto Maggi”. Altrove al posto del burro si consiglia l’uso della più economica “Margarina” o di altro burro vegetale.

I piatti di carne sono in prevalenza costituiti da frattaglie e il pesce è rappresentato da aringhe, sardelle e baccalà.

A sottolineare il carattere educativo del Piccolo Focolare, la Turco accompagna le ricette con un repertorio gnomico: proverbi, massime, sentenze (“Meglio onore che boccone”; “Misura tre volte e taglia una”; “La fretta fa rompere il bicchiere”; “A grassa cucina, povertà vicina”; “Chi fa bene fa presto”; “Il padre è l’ospite migliore alla tavola domestica”, ecc.). Spicciola pedagogia popolare: ma i detti verranno recepiti proprio da quelle fanciulle del popolo a cui erano destinati trasformandosi in scritture ricamate esposte sulle pareti delle cucine contadine.

L’idea della cucina economica diventerà di lì a poco, con lo scoppio della Grande Guerra, tema comune di un gran numero di opuscoli e di libri. E dopo, sarà tutto diverso: della cucina si occuperanno quasi esclusivamente le donne, e i ricettari saranno tutti scritti da donne per le donne. Sarà il tempo delle varie Zia Carolina, Zia Mariù, Petronilla...