Sul clero fuoco amico
Quando gli anticlericali sono cattolici. Una specificità tutta italiana, indagata storicamente: l'esempio del Trentino nel primo Novecento.
I o non so se la gerarchia ecclesiastica "ci è o ci fa", come comunemente si dice. Se davvero è priva di memoria o finge l’amnesia, visto il credito di cui gode presso una maggioranza di laici devoti, letteralmente caduti in ginocchio. Ma è bastato che sul palco del primo maggio si facesse un po’ d’ironia sulla sua opacità, che subito il giornale vaticano ha gridato nientemeno che al terrorismo. Dimenticando o fingendo di dimenticare che la presenza organizzata della Chiesa (storicamente con gli attributi del Potere) ha sollevato nel tempo ben altre critiche e di ben altro tono.
Se il giovane comico avesse letto qualche sonetto di Giuseppe Gioacchino Belli, uno di quelli che colpiscono prelati e cardinali e che definiscono Roma papalina come "la stalla e la chiavica del monno", che sarebbe successo? Già, che sarebbe accaduto?
A colmare il vuoto di memoria degli ambienti vaticani, volendo, c’è da un paio d’anni il bel volume di Ottavia Niccoli, dal titolo "Rinascimento anticlericale" (Laterza 2005). E’ vero, scrive l’autrice in apertura, che il termine "anticlericale" si attesta solo nel 1852, pure, a partire dalla prima età moderna prende corpo una vera e propria tradizione italiana che elabora in vario modo una polemica radicale contro l’avidità, la corruzione, il potere della corte romana. La specificità (italiana) risiede nel fatto che, spesso, si tratta di "fuoco amico": sono critiche (anche sotto forma di durissime invettive) che provengono dall’interno del mondo cattolico, quando non ecclesiastico. Così nel Cinquecento può accadere che un parroco, predicando all’interno della sua chiesa, possa definire il papa regnante "questo demonio".
Ma lasciamo perdere Roma e l’età moderna, per arrivare a questo nostro Trentino di primo Novecento, dove la Chiesa non si sottrae all’impegno politico diretto, dove è "parte" politica maggioritaria.
Nelle ultime ricostruzione storiche del movimento cattolico trentino, dovute alla penna moderata (ma anche addomesticata e dunque a tratti banalizzante) di Severino Vareschi (negli ultimi due volumi della "Storia del Trentino", prodotta dall’ITC, 2003 e 2005), viene riconosciuta l’esistenza di "un filone, seppure minoritario, vivacemente laicista e talvolta aspramente anticlericale", del tutto esterno alla Chiesa, composto da avversari e da "avversati". Vareschi si ferma qui, ma riconosciamo la bontà dell’affermazione: in fondo parlando di un "filone", e dunque di un pensiero organico, di idee e di valori, che si fanno "tradizione", ridà dignità a quanti si sottraevano al "pensiero unico" ideologico-religioso. Certo era un filone minoritario, ma non così minoritario: negli anni immeditamente precedenti la Grande Guerra, le inquietudini ribellistiche diffuse nel mondo studentesco trentino si caratterizzavano per una radicale avversione ad una Chiesa che si manifestava ovunque, nella scuola come nella società, con i segni inequivocabili del Potere. (Nella scuola il catechista - che per autorità veniva appena dopo il direttore - era temuto per via del suo ruolo di inquisitore sulla vita privata degli studenti; mentre i professori più giovani vedevano in lui una specie di censore in potenza, un sorvegliante sul loro modo di pensare e di agire).
In altre parole, l’affermazione anticlericale che si esprimeva sul "Popolo" di Cesare Battisti o in qualche circolo liberale, in certe circostanze poteva dar corpo e diffusione ad una vissuta esigenza di libertà.
Ciò che si tace (in Vareschi ed altrove) è invece la presenza di un anticlericalismo cattolico, assolutamente minoritario, ma non assente nemmeno in Trentino e che rappresenta la continuità con quella tradizione italiana messa in luce da Ottavia Niccoli. Ancora tutto da studiare, mi sembra di rintracciarlo, nei suoi esiti più interessanti, nel romanzo di Giulia Lazzari Turco, "Gabriele Iva", edito a Venezia nel 1911.
Giulia Turco (1848-1912), baronessa trentina, sposata con il musicista veneziano Raffaello Lazzari, fu una donna dai tanti interessi (una discreta pianista, una buona pittrice, collaboratrice di Giacomo Bresadola nelle sue ricerche micologiche, autrice - in un rapporto ravvicinato con Pellegrino Artusi - di fortunati libri di cucina, vedi Donne, cucina e ricettari); interessi ai quali aggiunse negli ultimi anni della sua vita un’ambizione letteraria che cercava di dar voce ad una particolare sensibilità religiosa. Tra Venezia e Trento, aveva coltivato amicizie importanti, con Luisa Anzoletti, Antonietta Giacomelli, Antonio Fogazzaro; aveva frequentato gli ambienti modernisti veneti, dai quali aveva assunto una spiritualità asciutta e gli obiettivi di riforma del movimento.
Poi nel 1911, a sei anni dalla pubblicazione del "Santo" di Fogazzaro, a cinque dalla sua messa all’Indice, a quattro dalla condanna del modernismo, pubblica un romanzo che costituisce una radicale, esplicita critica della Chiesa trentina, nella sua svolta integralista e confessionale.
Se prendiamo per buona la voce del "Grande dizionario della lingua italiana" di Salvatore Battaglia che definisce l’anticlericalismo come "l’atteggiamento di opposizione all’ingerenza del clero nella vita politica, sociale e culturale del paese", il romanzo della Turco è senza dubbio un’opera anticlericale.
Gabriele Iva, giovane prete tutto proteso in un suo dialogo interiore con il Padre, è un santo e come Piero Maironi, il Santo di Fogazzaro, vede anche lui gli "spiriti maligni" entrati nel corpo della Chiesa: la menzogna, la tentazione del potere e della dominazione, il prendere partito, l’avarizia. I preti che il protagonista (e con lui il lettore) via via incontra sono immiseriti dalla lotta politica, dalla faziosità, dagli interessi di bottega. Gabriele Iva li sorprende dietro il bancone del magazzino cooperativo a sorvegliare le merci, e la sera in canonica a contare e ricontare l’incasso. E se mostra fastidio e perplessità, c’è chi si incarica di ricordargli che non esiste influenza morale senza potere finanziario e che solo "con questi mezzi si ottiene la sicurezza di poter dominare le coscienze". E quando in città si trova di fronte all’Istituto centrale cattolico, don Iva comprede il significato concreto di quelle parole: "Gabriele comprese di trovarsi in mezzo ad un organismo commerciale complesso, che monopolizzava, nel suo potere finanziario, i più svariati elementi e che protendeva con evidenza le sue poderose braccia per tirare a sé sempre nuovi cespiti di lucro e di energia e gli parve che colla religione nulla avesse in comune, se non qualche epiteto usurpato. Esso conteneva difatti due banche destinate a scopi diversi, estesi magazzini di rifornitura per le cooperative, un bazar di arredi sacri, di libri e immagini ascetiche, un negozio d’apparecchi elettrici, una stamperia e la redazione di tre giornali, un circolo di lettura, una biblioteca, una sala per concerti e conferenze".
Giulia Turco non ha remore di sorta; intervendo in prima persona (al di fuori dello sguardo e dell’esperienza di don Iva) ha premura di informare il lettore che "le banche centrali del partito continuavano a fondare nei villaggi, e sempre sotto la direzione del clero campagnolo, le loro casse di risparmio diffondevano l’influenza finanziaria in modo non dissimile da quello di una piovra gigantesca i cui tentacoli, partendosi dal nucleo, si moltiplicassero in infinite diramazioni appicicandosi a tutto il territorio".
Gabriele Iva (alieno come un santo) si scontra dunque con un clero mortificato, opaco, privo di slanci spirituali, continuamente tentato dagli spiriti maligni della carne (i banchetti cui Gabriele assiste inorridito!). Solo pochi anziani sacerdoti, relegati in parrocchie irraggiungibili, sembrano aver conservato, oltre ad una dimensione verticale, una loro libertà di giudizio. Sono questi - suggerisce la Turco - i superstiti di un clero diverso, testimoni di un tempo (storico ed ideale) nel quale si poteva essere contemporaneamente preti e liberali e italiani, laici e tolleranti.
L’autrice (tra nostalgia e profezia) non approfondisce, ma senza dubbio coglie qui uno dei passaggi della storia ecclesiastica (non solo locale), mentre il pensiero va a preti come Giovambattista a Prato.
Gabriele Iva, prete fuori tempo e fuori luogo, non ha scampo: narrativamente dovrebbe morire in un gesto di estremo altruismo, ma poi la Turco lo salva spedendolo in Cina "solo, sciolto da ogni vincolo terreno, separato da tutti ormai e andava lontano in terra straniera a insegnare la legge dell’amore alta, pura, immune da profanazioni".
Il romanzo non ebbe alcuna fortuna e fu semplicemente ignorato: perfino la sola recensione che ebbe sul "Popolo" a firma di Ernesta Bittanti, fu parzialmente negativa, poiché anche i socialisti non vi facevano bella figura (e il fratello di Gabriele, socialista spiantato e parolaio, si chiama Cesare!).