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Soli e male accompagnati

Minorenni rumeni a Bologna. Da Piazza Grande, giornale di strada di Bologna.

Cassandra Cristea

Romania, estate 2006. Per una volta decidiamo di “sacrificare” l’estate e fare un viaggio attraverso le città della Moldavia rumena, nel sud-est del paese, là dove finisce la zona dei famosi monasteri ortodossi. Botosani, Pascani, Roman, Bacau, sono alcune delle città che “esportano” in Italia un numero considerevole di cosiddetti “minori non accompagnati”. Dovunque ci fermiamo, il paesaggio è lo stesso: a 15 anni dalla caduta del regime comunista l’atmosfera che si respira è cambiata poco. Ci sono più bar, ma si vedono ancora i negozi tristi con le vetrine piene di polvere con qualche pianta ormai secca, come se la povertà spaventosa che c’era fosse rimasta pietrificata, la città insieme agli abitanti.

Fermiamo la macchina su un strada alberata. Intorno è pieno dei famosi palazzi-ghetto di Ceausescu, in una città nata dal nulla intorno a una grande fabbrica. Chiediamo ad un passante dov’è il centro: ci risponde che nel centro ci siamo già. Oltre i palazzi, fitti come scatole di fiammiferi, ci sono solo due-tre negozi di vestiti e un bar, dove prendiamo un caffè. Il proprietario prende l’acqua da mettere nel bricco da un secchio accanto al banco e ci dice, scusandosi, che il rubinetto è rotto.

Se le città sono così, gli innumerevoli villaggi intorno danno ancor più l’impressione di un deserto, di una zona dove è appena passata una guerra. La gente prova a cercare lavoro in città per guadagnare circa 80 euro al mese, o sopravvive in campagna, spesso contando sui 10 euro di sussidio mensile che lo Stato dà alle famiglie per ogni figlio fino ai 14 anni.

In Italia. I minori rumeni che arrivano in Italia vengono da lì; purtroppo la Romania offre tuttora tanti quadri simili.

“Questo è il mio stile di vita,/ pago ma sto in prima fila./ Spendo molto ma produco tanto./ Mi rispettano dovunque vado./ Cuore di pietra, cuore di leone,/ lo ammettono tutti che sono sempre un campione…”. E’ Romulus che canta, seduto sul bordo della strada. Nonostante i suoi 16 anni ha una voce da uomo. Insieme ad altri suoi amici abita in uno dei tanti campi nomadi di Bologna. Vengono tutti dalla Moldavia rumena e le condizioni in cui si trovano a vivere fan sì che i rom “rumeni-tzigani”, come dicono loro, si siano mischiati ai “rumeni-rumeni”, cosa che in Romania non sarebbe mai successo.

Quello che accomuna tutti sono i vestiti Nike che indossano. Nel loro paese non avevano mai sognato di poterli avere. Per loro significa essere “vestiti bene, in tiro”, ma la sporcizia di quegli abiti tradisce la vita che fanno. I vestiti, rubati nei negozi, dovrebbero nascondere l’origine povera dei ragazzi e invece diventano un marchio di riconoscimento. Sembra che nessuno di loro abbia un progetto migratorio chiaro. Tutti spesso fanno i pendolari tra la Romania e l’Italia: quando scade il permesso di soggiorno turistico si torna in Romania, e poi, appena si può, si torna.

Per qualcuno invece il progetto c’è, come ci racconta Ionut, che va in giro per i mercati a chiedere l’elemosina. Come tanti suoi compagni, Ionut è rimasto a Bologna “affidato” non legalmente al resto della famiglia. E’ arrivato in Italia 3 anni fa insieme alla madre, con lo scopo di chiedere insieme l’elemosina. Sono passati per le baracche dei campi nomadi, per l’ex-Ferrotel, per Villa Salus, finché due anni fa, quando Ionut aveva 14 anni, la mamma è stata fermata e, come clandestina, e stata messa sull’aereo e rimandata in Romania. Essendo minorenne, Ionut ha potuto scegliere se seguire o meno la madre, e lui ha deciso di rimanere a Bologna.

Ma tua madre cosa dice, non ha paura per te, che sei rimasto qui da solo?

“Come da solo? - interviene Gabriel - Qui è con sua zia, con i cugini e col padrino”. Adesso Ionut ha 16 anni ma è ancora un bambinone che cerca di farsi la barba che però non vuole ancora crescere. E’ un ragazzo dolce ma spesso irascibile, cresciuto in fretta; racconta di guadagnare circa 30 euro al giorno grazie all’elemosina. Alcuni di questi soldi li manda in Romania alla madre, altri li usa per comprare insieme agli altri del cibo e la benzina per il generatore della luce. Vorrebbe rimanere in Italia per fare più soldi e poi un giorno poter comprare una casa vera in Romania, nel villaggio dov’è nato.

Nei giorni successivi al nostro primo incontro, la Polizia arresta il padrino di Ionut, che ha 16 anni ed è già padre di una bambina di 2 mesi. Ionut racconta di essere stato fermato tante volte dalle Forze dell’ordine e portato in una comunità di pronta accoglienza, dove potrebbe essere inserito in un progetto di alfabetizzazione (quasi tutti i ragazzi del gruppo sono analfabeti) e poi lavorativo, ma lui non vuole saperne: “Ho paura che là dentro mi annoio” ...e in effetti è questa la risposta che danno anche gli altri, passati parecchie volte per le comunità di accoglienza.

Spesso litigano sull’argomento “Cos’è meglio, rubare o lavare i vetri ai semafori?” e il gruppo si divide. Si vantano tutti dei soldi che guadagnano, che in realtà non sono mai tanti come dicono. Ai semafori vengono cacciati via dalla polizia e in inverno fa freddo; i furti vanno bene un giorno sì e uno; l’elemosina conviene solo perché è in euro, non in moneta rumena…. Ma nelle baracche, nelle roulottes o negli edifici abbandonati dove sono accampati, ci sono tante altre bocche da sfamare. Spesso infatti gli adulti, clandestini, preferiscono mandare per le strade i figli, i nipoti o i figliocci, invece di esporsi rischiando in prima persona.

I ragazzi non usano mai la parola “lavorare”, dicono sempre “produrre”, che in rumeno è il termine in gergo per dire ”prostituirsi”. Eppure sono felici di essere in Italia e soprattutto di poter fare quest’esperienza insieme ad altri coetanei, con cui dividono il “lavoro” e i divertimenti. Tutto ciò, per loro, è più importante della nostalgia per i genitori, del dover “produrre”, del dover scappare dalla Polizia. Raccontano quasi tutti di essere arrivati in Italia con una delega falsa, un documento in cui i genitori dichiarano di essere d’accordo con la partenza del minore all’estero. “Costa 100 euro un documento del genere - dice Cristi, un ragazzetto di 13 anni venuto a Bologna per raggiungere il fratello diciottenne – Io sono abituato a girare da solo, conosco tutte le città rumene, là chiedevo l’elemosina sui treni…”. Cristi è uno dei tantissimi bambini-adolescenti che s’incontrano sui treni rumeni. Aprono la porta, si fingono muti, poi scendono dal treno e ne prendono un altro. Non tutti quelli che fanno così sono rom, ma di certo sono tutti poveri.

Ilie è arrivato a Bologna un anno fa, anche lui con una delega falsa, con uno dei tanti pulmini che sono diventati una vera e propria rete di traffico dalla Romania verso l’Italia. Ha 16 anni, è biondo, minuto, con una piccola gobba, con un bel viso. E’ qui col fratello maggiorenne, che avendo già ricevuto il foglio di via dai Carabinieri, sta tutto il giorno al campo. La madre ha incaricato lui, il più piccolo, di fare dei soldi per poter pagare il viaggio di ritorno del fratello e garantire alla famiglia non solo la sopravvivenza in Romania, ma anche un po’ di soldi per poi emigrare tutti insieme in Portogallo. Ilie lava i vetri ai semafori in via Corticella, ma vorrebbe imparare a fare il vetraio, come faceva suo padre. Alle domande su eventuali approcci omosessuali, tutti evitano una risposta chiara, abbassando gli occhi: “Certo, chi non produce con i furti o con l’elemosina e non ha la pagnotta nello stomaco, deve andare coi finocchi. Chi lo fa lo fa per soldi, ma noi no...”.

Nelle ore in cui non sono in giro, di solito i ragazzi stanno insieme e giocano a carte. Ogni tanto si lavano nel ruscello dietro le baracche e là vanno anche a pesca.

Vado al campo in una giornata di caldo tremendo, quando le baracche sono sommerse dai fiori volanti dei pioppi. Volano dappertutto e fanno sembrare il posto ancora più surreale. Ho la sensazione di essere in uno di quei villaggi rumeni, con i bambini che giocano per terra davanti alle case, le donne che cucinano fuori, la musica alta, gli uomini seduti davanti alle baracche a giocare a carte mentre bevono birra e mangiano semi di girasole sputando le bucce per terra.

Passano altri giorni e il padrino di Ionut viene rilasciato. Mi accompagna lui ad uno dei bar ambulanti del campo e mi offre una Coca Cola. Il bar è gestito da una signora con i suoi tre figli minorenni. Mi dice subito che non è rom, ma che però fanno la stessa vita, non hanno lavoro e che in Romania non hanno più una casa perché è stata portata via dalle acque. Il figlio più grande, tutto rigorosamente firmato Nike, ammette che lui sa arrangiarsi

In mezzo a questa Macondo decadente c’è anche Luna. E’ vestita in un modo volgare, tutte e due sappiamo dove va a fare le sue passeggiate. Luna l’abbiamo conosciuta in strada, in uno dei luoghi classici della prostituzione a Bologna. Si notava subito che era molto giovane: piangeva e ci chiese aiuto. Aveva una minigonna fuori moda, era sporca, aveva appena litigato con il “fidanzato” che era passato di lì per chiederle dei soldi. Restammo a parlare per tutta la notte: disse che non riusciva a vivere senza il suo uomo, anche se lui aveva un’altra famiglia in Romania e lei aveva solo 15 anni. “Lui mi ha aiutata a scappare dal mio magnaccia e mi ha offerto una casa”, e cioè una baracca in un campo nomadi. Lui è clandestino e non trova lavoro, e Luna si sente in dovere di mantenerlo. Ogni tanto la mattina arriva la telefonata della madre che dalla Romania le dice di andare subito a spedire i soldi promessi, che lei è già davanti allo sportello della Western Union che aspetta. La mamma di Luna sa certamente da dove arrivano i soldi, conosce il mondo squallido in cui vive la figlia.

E come Luna ci sono decine di minorenni sulle strade di Bologna, che giorno e notte “producono”, e le storie sono sempre uguali: grande miseria, mancanza di istruzione e di ogni prospettiva, famiglie distrutte, amori traditi, promesse di un matrimonio o di un lavoro all’estero. E da ciò il bisogno di illudersi che tutto questo sia vero per poter colmare i vuoti, le mancanze, le violenze subite, per poter giustificare la vita che fanno.