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QT n. 6, 25 marzo 2006 Monitor

Ducis in fundo, “Pigmalione”

Caratterizzata dal grande, puntiglioso lavoro sulla lingua (italiano colto e toscano popolare), decisamente convince la versione del lavoro di Shaw da parte Teatro Stabile di Catania.

All’appello manca "Cirano di Bergerac", in programma la penultima settimana di aprile, ma con "Pigmalione" la Stagione può dirsi conclusa. Più che stendere un bilancio, preferiamo evidenziare quanto questo allestimento abbia suggellato degnamente un cartellone non sempre godibile (ovvero "denso di stimoli", anche amari).La regia di Roberto Guicciardini coglie le due anime che Shaw infuse nella sua commedia: ritmo scoppiettante e dialoghi al vetriolo, che non banalizzano la satira di fondo. La società in cui si muove Liza è ipocrita e perbenista, radicata nell’apparenza per quanto, simpaticamente, in evoluzione. I personaggi, chi più chi meno, si destreggiano per costruire un presente e un futuro che diano loro sicurezza prima ancora che un ruolo definito. Se il testo di Shaw ha una parola chiave, è senza dubbio "emancipazione" o, meglio, "realizzazione di sé".

Il contrapporsi di gente bene e popolino è filtrata in abiti e linguaggio: italiano da un lato, toscano dall’altro. Quest’ultimo, nel brioso adattamento a cura di Marco Messeri, rende lo scarto fonetico-culturale tra l’inglese colto e il cockney londinese, difficilmente traducibile da noi. L’effetto è esilarante con parole dove spadroneggia la tipica "c" aspirata fiorentina. Ciò, però, spinge buona parte del cast a una recitazione sui generis: non è solo una questione di pronuncia (perfetta), ma di dizione nel senso più ampio e più alto del termine. Le sfumature quasi impercettibili del timbro vocale distinguono ad esempio l’originale dalla sua imitazione, e per accorgersene non serve un orecchio particolarmente allenato: Higgins scimmiotta Liza, ne replica fonema per fonema le parole, eppure avvertiamo in ogni suono l’altezzosa derisione del professore; Liza, dal suo canto, passa con scioltezza da un dialetto grezzo, colorito, appassionato a un italiano senza sbavature, misurato, impersonale. Dietro un tale risultato vi è certo un lavoro puntiglioso, quasi maniacale sull’attore, il che rende formidabili le performance della Bargilli (da cui, sinceramente, non ce l’aspettavamo) e di Gleijeses. I due protagonisti ci hanno rapiti, e notevole è stata anche Valeria Fabrizi nei panni della signora Higgins. Bravi, nella media, gli altri.

Un cenno speciale meritano le scene di Piero Guicciardini, le cui enormi vetrate fanno da cornice a ogni ambiente, come trait d’union della pièce. Nel suo insieme, lo spettacolo risulta persino superiore al musical "My Fair Lady" proposto dal Teatro di Messina nel 2001, il cui punto debole erano i testi italici delle canzoni. Alla compagnia dedichiamo quindi le parole di Shaw: "Cos’è la vita se non una serie di ispirate follie? Il difficile è trovarne da fare. Non perdere mai un’occasione: non arriva ogni giorno".

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