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QT n. 5, 11 marzo 2006 Servizi

A cena con D’Alema

Una serata fra entusiasmi e amarezze. E la strana fauna dei rampanti della Sinistra Giovanile.

Presentiamo, qui e in Giornalismo? Un mestiere come un altro , due esperienze di altrettanti nostri giovani collaboratori. Pur diverse, una nel mondo del lavoro e una in quello della politica, sono accomunate da un dato di fondo: la desolante vuotezza morale che spesso alberga nella nostra società, e con la quale un giovane si trova, a un certo punto, a fare i conti. Soprattutto se è impegnato, preparato ed esigente; e proprio queste doti si rivelano invece degli ostacoli. Perché si trova invece di fronte a una realtà che chiede l’opposto, fatta com’è di compromessi, di piccole arroganze, di sfacciato rampantismo. Purtroppo queste due storie, pur piccole in sé, non rappresentano casi isolati.

La serata, organizzata dai DS di Bologna, ha un duplice obiettivo: inaugurare la nuova sede della Casa dei Popoli di Casalecchio e raccogliere fondi per la campagna elettorale. Pur avendo accettato di partecipare con qualche titubanza, mi accorgo che accanto alla ragionata perplessità verso un leader che ha sbagliato molto senza sostanzialmente pagarne uno scotto politico, sento anche un’istintiva emozione all’idea di incontrare una persona di acuta intelligenza e capacità politica.

Arriviamo puntuali al luogo dell’incontro, un grande e moderno centro polifunzionale sorto sulle nobili macerie della Casa del Popolo costruita dai militanti all’inizio degli anni ‘60; a qualcuno scappa una battuta sulle Cooperative Rosse che con tutta probabilità hanno avuto in appalto la costruzione del nuovo edificio.

Il nostro sparuto gruppetto viene aggregato alla tavolata della Sinistra Giovanile, in una saletta laterale dalla quale possiamo seguire l’intervento del Presidente su di un maxischermo. I presenti sono più di cinquecento, l’80% ha più di sessant’anni, il restante 20% ne ha meno di trenta. In mezzo il vuoto.

Il discorso di D’Alema è efficace e in qualche passaggio anche appassionante: ricorda i tonfi principali di questo governo, gli attacchi subiti in merito all’Unipol e propone un vademecum per punti su come ognuno può fare campagna elettorale, con tanto di risposte da controbattere alle obiezioni più ricorrenti. I signori e le signore ai tavoli ascoltano diligenti e partecipi, annuendo. Mi viene da pensare agli anni del PCI, quando leader come Longo o Berlinguer venivano da Roma per preparare gli operai e i contadini dell’Emilia rossa, poveri di istruzione ma ricchi di fede e volontà. Penso all’ideologia, oggi denigrata e screditata, che necessariamente avrà permeato tanti discorsi d’allora, semplificando e modificando la realtà, certo, ma permettendo tuttavia ad ogni militante di dare un senso alla propria fatica e alla propria vita, consentendo di guardare con fiducia al domani e prospettando quel sol dell’avvenire che oggi, invece, ci spaventa tanto. Capisco allora, al passaggio del compagno D’Alema, gli occhi lucidi di qualche anziana signora e le strette di mano emozionate dei loro mariti. Ciò che essi si trovano di fronte non è solo la persona, ma anche la carica, quel segretario nazionale che fino a Natta cessava il suo incarico quando cessava di vivere, che incarnava la loro massima istituzione nazionale, capo indiscusso di quel mondo pubblico, ma anche fortemente privato, che era il Partito.

La nostra tavolata di giovani è ben assortita, l’Italia è rappresentata da nord a sud, alcuni sono studenti, altri lavorano. Si parla di politica ma si ascolta poco. Sembra più importante dimostrare al vicino di conoscere tante persone e di possedere un eloquio convincente che scambiarsi delle impressioni. Un amico mi racconta di un seminario della Sinistra Giovanile a Napoli qualche settimana prima. Viaggio, vitto e alloggio erano pagati e al ristorante, al momento di ordinare, tanti ragazzi chiesero i piatti più costosi del menù, senza nemmeno badare a che pietanze fossero. E’ il segno, ne convengo, che qualcosa si è perso, e non solo nei militanti, ma anche nel partito, che nell’organizzare un seminario per i giovani, affitta un albergo senza nemmeno provare a pianificare la trasferta in modo che i giovani in arrivo siano ospitati dai giovani di casa. Parlare con un ragazzo che viene da un’altra città, che ha una storia e delle problematiche diverse, che vede la politica e il partito in modo diverso, sarebbe forse più utile e più bello del seminario stesso.

Quando D’Alema si avvicina per salutare la nostra tavolata, è il delirio. Cori e salti, autografi e fotografie. I leader della Sinistra Giovanile, che non erano nemmeno seduti al nostro tavolo ma nell’altra sala (con quelli che contano), sgomitano per stargli vicini. E’ una gara a pacche sulle spalle per dimostrare la maggior familiarità possibile col Presidente. Uno di loro si gira coi pugni festosi al cielo e ci dice: "Ve l’ho portato!". Ma qual è il senso di questa enfasi? Come giovani avremmo tante ragioni per contestare l’attuale classe dirigente e potremmo (e dovremmo) farlo anche dall’interno dei partiti stessi.

Poco dopo, le stesse persone che si sperticavano in calorose effusioni verso D’Alema, irridono, tentando di avere più vino del dovuto, un anziano signore che ha deciso di passare la serata a servire noi ai tavoli, facendo la spola tra la cucina e la sala da pranzo assicurandosi che a nessuno manchi nulla.

Ma cos’è la politica per costoro? E cos’è la militanza in un partito? Forse anche alla luce di questo si capisce il perché del tanto fascino di cui godono i movimenti spontanei, i centri sociali, il volontariato. Per chi vuole fare politica, nel senso più genuino del termine, oggi i partiti non sono forse lo strumento adatto: lì si gioca a fare i politici in miniatura e ci si accapiglia per distribuirsi le prime poltroncine. Da questi partiti tanto vale uscire. All’interno restino pure quelli per cui la militanza e il partito sono un’agenzia di collocamento.