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QT n. 21, 10 dicembre 2005 Monitor

Un bel concerto troppo educato

Profondamente colto l'apprezzato concerto del duo Tobia Revolti (violoncello) e Roberto Plano (pianoforte). Forse però, qualche spigolo in più...

Venerdì 2 dicembre si è tenuto presso la sala di via Verdi il penultimo concerto della Stagione annuale della Società Filarmonica di Trento, appuntamento che ha visto protagonisti il violoncellista Tobia Revolti e il pianista Roberto Plano.

Il pianista Roberto Plano.

Le ottime credenziali di cui godono entrambi i musicisti, l’affetto che proviamo per il trentino Revolti e il programma stesso, fra cui spiccava una composizione commissionata dalla Filarmonica al giovane compositore, trentino anch’egli, Matteo Franceschini, hanno caricato l’evento di grandi aspettative, che sono state fortunatamente appagate.

In particolare sono state apprezzate, oltre la scontata preparazione tecnico-strumentale, la profonda civiltà musicale del duo, l’attenta lettura del testo, la ricerca di un risultato sonoro uniforme e di un amalgama timbrico tipico dei cameristi di razza; e in questo si avvertono fortemente gli studi compiuti da Revolti e Plano presso la Scuola del Trio di Trieste.

La profonda cultura della musica da camera e l’estrema civiltà dell’interpretazione testuale (che così tanto latita in tanti altri strumentisti) si è però rivelata a tratti un limite; il mondo sonoro risultante, sempre calibrato, sempre senza spigoli, sembrava diventare quasi autoreferenziale e "di nicchia", cioè capace di raggiungere solo le (poche) persone che sono sulla medesima lunghezza d’onda e che hanno gli strumenti e il gusto per apprezzarlo appieno.

Crediamo che a volte sia necessario far emergere, beninteso all’interno di questo sacrosanto approccio all’arte dell’interpretazione e di questa limpida educazione al suono cameristico, più accentuate dialettiche dinamiche, quindi l’uso di una tavolozza timbrica estremamanete più ampia; se proprio una critica fosse necessario muovere al bellissimo concerto offertoci, sarebbe proprio questa, la mancanza di "maleducazione".

Nella prima parte l’esecuzione delle sette Variazioni sull’aria del Flauto Magico Bei Maennern welche liebe fuehlen di Beethoven e dell’Adagio e Allegro op.70 di Schumann sono state preziose, da ricordare come piccole perle interpretative, dedicate a palati fini.

La Sonata di Debussy è forse il pezzo che ha sofferto di più della troppa "civiltà" suddetta: soprattutto la Serenade e il Finale sono risultati un po’ troppo contenuti nelle intenzioni, quasi frenati negli episodi allucinati della serenata e nei momenti di più impetuosa esplosione sonora e virtuosistica del finale. La lettura che ne ha dato il duo è stata emblematica dell’intero concerto: un grande lavoro di scavo del testo e degli equilibri, ma a tratti mancante di un ritorno in superficie necessario e vitale.

Il compositore Matteo Franceschini.

La scrittura della Sonata op.19 di Rachmaninov ha invece contribuito a liberare maggiormente le forze sopite; i grandi archi melodici e gli accattivanti moduli ritmici sono stati resi al meglio ed è risultata chiara una volontà di "liberazione" esecutiva che ha finalmente trovato sfogo nelle pagine del compositore russo.

Paragrafo a parte merita l’esecuzione del brano di Matteo Franceschini, The greatest (hist), che per chi scrive è risultato il momento più alto del concerto: da una parte una composizione fresca e giovane, intelligente, di solida fattura e mirabile nel dosaggio di effetti ed accostamenti timbrici, dall’altra un’esecuzione che ha lasciato trasparire ogni preziosismo della scrittura, dagli echi ancestrali delle regioni acute del violoncello, alle risonanze nella cordiera del pianoforte, fino alle esplosioni sonore degli ostinati ritmici e degli aggregati accordali.

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