La tigre e la neve
L'ultimo film di Roberto Benigni, come e più de "La vita è bella" si presenta come una variazione del capolavoro chapliniano "Luci della città". Ma Benigni, per quanto vitale, innocente e sincero, non è Chaplin.
Tutto parte da "Luci della città". Il film di Charlie Chaplin racconta la storia di un vagabondo che, scambiato per un miliardario, riesce a trovare i soldi per far riacquistare la vista a una giovane fioraia cieca. Il finale, forse il più poetico della storia del cinema, ci mostra la fioraia che ha aperto una sua bottega. Vede passare il vagabondo e lo prende per mano, per fargli l’elemosina. Toccandolo, lo riconosce. Il film finisce lì, senza che ci sia dato sapere cosa il futuro riserverà a quei due. Tutto quel che possiamo intuire ci viene comunicato dall’incrocio degli sguardi. Quello di lei è indeciso tra cristiana compassione e uno slancio d’amore.
"La vita è bella" e, di più, "La tigre e la neve" sono una variazione sul tema di "Luci della città". Con il suo ultimo film, Roberto Benigni si spinge ancora più in là nel suo esplicito tentativo di mettere in pratica la lezione di Chaplin, forzando poesia dentro ogni gesto, movenza o espressione. Ma da "City Lights" sono passati settant’anni e più, e forse tanto candore non è più adatto alla nostra epoca; oppure a Benigni manca il rigore cinematografico che in qualche magico modo controllava la sconfinatezza delle tematiche di Chaplin. Sta di fatto che "La tigre e la neve" è un film pieno di quei limiti che il pubblico e la critica gli stanno riconoscendo.
I film muti di Charlie Chaplin ci insegnano che la poesia, se la si vuol portare su di uno schermo, non si trova più di tanto nelle parole. Benigni ne è consapevole, sa che le cose migliori del suo cinema stanno nei movimenti del corpo, nelle gag visive, negli equivoci non-parlati; ma allo stesso tempo vuole far passare dei messaggi verbali che non possono non risultare deboli e retorici alle orecchie di chi li ascolta. Attraverso il suo personaggio, Benigni ci dice che la poesia può/deve riempire l’esistenza, che l’amore è l’unica cosa per cui valga la pena vivere, che la guerra è un buco nero dell’umanità.
Ogni dichiarazione di questo genere è accom-pagnata da dosi massicce di sincerità. Benigni crede veramente in quello che dice, c’è un senso di innocenza e di trasporto che rendono tollerabili frasi tanto generiche e astratte. Ma non basta riconoscere la sincerità dell’emittente per impedire che il messaggio arrivi a noi, alla fin fine, piuttosto vuoto. La poesia di cui Benigni impregna il film è un comportamento dichiarativo, del genere "io voglio fare un film poetico".
E questo modo di presentarla, così esplicito e didascalico, finisce proprio per elidere la stessa poesia, che negli sbandieramenti sparisce, come in una formula matematica in cui la radice e l’esponente si annullano.
La somiglianza a tutti gli effetti molto forte tra "La tigre e la neve" e "La vita è bella" deriva dalla comune matrice che entrambi i film trovano in "Luci della città". Le pellicole sono, come nel sottotitolo del film di Chaplin, "a comedy romance in pantomime", mettono insieme la commedia e il melodramma: nei due film, la prima parte racconta le difficoltà di una storia d’amore, la seconda immerge questa storia in un contesto dove il romance (il romanticismo, il romanzesco) sembrerebbe impossibile – le baracche di un lager o l’ospedale di un Paese in guerra. "La tigre e la neve", come "Citylights", parla della forza salvifica dell’amore. Quando l’amore è così grande e puro come lo concepisce Benigni, esso è gratuito e non richiede nessun riconoscimento. Il poeta Attilio e il vagabondo la pensano e si comportano esattamente allo stesso modo.
Ma di fronte a un tema così, se non si è Chaplin, il rischio del patatrac è dietro ogni angolo. "La tigre e la neve" finisce dunque per essere un film non riuscito, è sbagliato nella costruzione dello svolgimento narrativo, con salti bruschi e senza progressione da una sequenza all’altra; nell’affrontare in modo superficiale il tema della guerra; nel buonismo e nella voglia di accontentare tutti; e soprattutto, come già accennato, nella gestione registica dei tempi cinematografici.
Il finale di "Luci della città" è stato provato e riprovato, cambiando attrici, movimenti, inquadrature, tipi di sguardo. Sotto l’apparente facilità di esecuzione si nasconde una regia maniacalmente precisa, capace di girare chilometri di pellicola per ottenere l’effetto desiderato, quell’espressione, quel mezzo sorriso in grado di donare all’ultima sequenza una perfezione inarrivabile, che emoziona ad ogni visione.
A Benigni manca questa capacità di direzione, ma forse sarebbe chiedergli troppo. Probabilmente bisogna essere capaci di accontentarsi di quel po’ dello spirito di Charlot che comunque ritroviamo, anche solo per qualche secondo, nei film dell’attore e regista toscano. Di fronte a qualcuno che ha interiorizzato la lezione, e la "bontà", di Charlie Chaplin siamo disposti a nutrire molta indulgenza.