La guerra delle parole
Americani liberatori o invasori? Irakeni terroristi, partigiani, o che altro?
In ogni guerra un fattore importante e che spesso si è rivelato decisivo è la sua narrazione. Come cioè, essa viene raccontata e descritta sia sul territorio interessato, a chi la guerra la sta combattendo e subendo, sia nel resto del mondo, a chi ne è spettatore e non ne ha testimonianza diretta. In questo la guerra in Iraq non fa eccezione. E che una guerra retorica venga combattuta parallelamente a quella militare è facile intuirlo pensando, ad esempio, che la stessa parola guerra non è accettata dagli USA e dal nostro Governo che la considerano sbagliata e fuorviante per descrivere le attuali operazioni militari in Iraq.
In queste righe vorremmo provare ad orientarci all’interno di questa guerra di parole, e più precisamente vorremmo occuparci dei nomi con i quali vengono chiamati coloro che, cercando di usare una descrizione più neutra possibile, potremmo definire: coloro che si battono contro le truppe spiegate in Iraq e guidate dall’America. Pensando a loro, ci risuonano familiari in mente parole dalle accezioni e dai significati più diversi: terroristi, guerriglieri, partigiani, banditi…
Per cercare di fare chiarezza bisogna però partire da un’importante premessa. Comunque si affronti l’argomento, esso va trattato con gli strumenti della nostra storiografia, con le nostre categorie storiche e politiche, con i nostri significati e valori. Quindi, che si tratti di partigiani o di terroristi, di guerra di liberazione o di resistenza, bisogna ricordare che noi utilizziamo una terminologia che fa parte della nostra storia occidentale e non della storia irachena.
Tenendo ben presente questo punto, credo che l’appellativo da usare per caratterizzare quegli uomini, e quindi il loro ruolo, dipenda direttamente dalla tipologia di guerra nel quale noi li vediamo inseriti. Mi spiego. Se la nostra percezione è che in Iraq sia in atto una guerra di liberazione dall’invasore americano, allora è fuor di dubbio che chi combatte questa guerra nelle fila irachene è un partigiano, un liberatore, che fa parte di una resistenza. Se invece la nostra riflessione è che i liberatori siano gli americani e alleati, arrivati in Iraq per riportare la democrazia, allora chi combatte contro di essi è un terrorista che fa capo ad un apparato di guerriglia.
Come orientarsi in questa guerra di liberazione "a due direzioni": gli USA che liberano l’Iraq o l’Iraq che libera se stesso? E dove inserire le, anch’esse presenti, indicazioni di guerra civile?
Ritengo che il tentativo americano di catalogare la guerra in Iraq come guerra di liberazione nazionale e di rinascita democratica - tinte che poteva forse avere fino alla destituzione di Saddam - si sia scontrata con un atteggiamento degli iracheni che non aveva i connotati di una festosa accoglienza dei propri salvatori. Si è pertanto cercato di deviare sulla immagine di guerra civile, dipingendo una situazione dove dei terroristi, in combutta con frange minoritarie della popolazione, cercano di sabotare le operazioni della coalizione, in un contesto di totale assenza di obbiettivi unificanti.
Ma qual è il contesto di guerra in cui i nostri "nomi da definire" si trovano ad operare? E’ questa una guerra civile o di liberazione o addirittura di civiltà? Ed essendo questa una guerra tecnicamente illegale perché senza legittimazione dell’ONU, è possibile considerare chi si oppone ad essa come un terrorista? E ancora, questa "guerra preventiva" trova una collocazione nelle nostre categorie tradizionali, o siamo noi tecnicamente impreparati a catalogare questa e chi la combatte?
La stampa non ci fornisce molte risposte. Le definizioni non solo cambiano da testata a testata, a seconda della collocazione politica, ma spesso manca anche una linea editoriale ben precisa all’interno dei singoli giornali, a seconda del giornalista o del fatto da raccontare, ad utilizzare appellativi diversi e, a volte, contraddittori. In Italia le definizioni usate, che come detto sono tutt’altro che rigorose e stabili, sono solitamente racchiuse tra i due opposti estremi di Libero e de Il Manifesto. In Europa la situazione non cambia e se di "resistenza" parlava nei giorni scorsi The Guardian, mentre "guerriglia" suggeriva le Monde, negli archivi on-line di entrambi i quotidiani si possono trovare articoli dove questa terminologia è diversa o scambiata.
Cerchiamo allora di trovare qualche risposta con l’aiuto del prof. Sergio Fabbrini, politologo ed esperto di relazioni internazionali dell’Università di Trento.
Professore, in Iraq che tipo di guerra si sta combattendo?
"Questo è uno dei temi più importanti, dove il dibattito culturale è più acceso. La prima cosa da dire è che è impossibile definire cosa accade in Iraq utilizzando categorie del passato, serve invece fare tabula rasa dei generi e delle classificazioni alle quali siamo abituati. Detto questo bisogna tenere presenti due punti: la struttura del regime iracheno liberato e il ruolo dall’America. Saddam era inequivocabilmente un dittatore e quindi la sua caduta è coincisa con la liberazione da un regime. Scoperchiata la pentola, però, ci si è trovati davanti ad un Paese senza un’identità nazionale, diviso in tre grandi aree religiose in conflitto e senza una struttura sociale univoca. In questo senso l’America ha commesso alcuni grandi errori. Per prima cosa ha sbagliato ad interpretare la liberazione irachena come se fosse stata la liberazione dell’Italia o della Germania, credendo esistessero le basi di modello di stato di stampo europeo, dando invece vita, dopo la liberazione, ad un processo di definizione dello stato. In questa situazione ha instaurato un governo di persone che non avevano contatti e agganci col mondo civile e religioso e - concependo il processo di democratizzazione come la defascistizzazione o la denazificazione - ha smantellato tutta la struttura esistente trovandosi il nulla".
Quindi come chiamerebbe lei i personaggi che cerchiamo di analizzare?
"In Iraq non c’è un’unica linea di conflitto bensì più linee di frattura, il che rende estremamente complicato chiamare gli uni liberatori, gli altri resistenti. Per ogni linea di frattura ci sono combattenti che utilizzano mezzi differenti per raggiungere fini differenti. E’ chiaro che, essendo tutto partito da un’operazione unilaterale e illegale, ha buon gioco chi, adesso, vede nell’America un paese invasore e occupante. E’ altrettanto chiaro però che in questa situazione si sono inseriti dei veri e propri gruppi terroristici. Il che inoltre, è stato un alto grave errore americano, aver fornito ad Al Queda una nuova base territoriale dopo che, per motivi diversi, erano venute a mancare quelle dell’Afghanistan, della Libia, del Sudan, del Pakistan…"
E qualè la posizione della stampa americana sul tipo di guerra che si sta combattendo?
"All’inizio in America c’era una posizione univoca che considerava quello iracheno un regime e i suoi sostenitori dei terroristi. Adesso il dibattito è acceso. I grandi quotidiani come il New York Times, il Los Angeles Times o il Washington Post sono usciti da questa linea, il Congresso ha capito che le distinzioni sono più delicate e complicate e anche all’interno della stessa amministrazione Bush il dibattito si è fatto aperto e acceso. Comunque non bisogna dimenticare che questi, in America, sono mesi di elezioni e le elezioni spingono e condizionano fortemente le azioni. In vista dell’autunno Bush vorrà portare a casa qualche risultato; quindi saranno logiche ulteriori evoluzioni".