01.org: arte, rete, attivismo
Un gruppo di net artisti che ha scelto l’arte come forma di critica sociale.
La seconda tappa del nostro viaggio ai limiti dell’arte ci porta nel virtuale di Internet, ove abbiamo fatto conoscenza del gruppo 0100101110101101.ORG (abbreviato: 01.org): un nome, un sito. Gioiosamente anonimi, per loro il nome è un inutile fardello dietro il quale si cela la proprietà, il marchio cupo del copyright, della legge e del mercato che assassinano l’arte e il suo libero divenire, il suo spontaneo contaminarsi. E la liberazione da queste catene, da questi muri non è per loro un solo fatto di rivolta per la liberazione dell’arte, ma opera d’arte stessa.
Una serie di performance della liberazione, come quando clonarono il sito hell.com, famosa galleria di net art, rendendolo disponibile a tutti, e non a pagamento come d’uso. Sorte simile per Art Teleportacia , ove le opere clonate sono state radicalmente mutate, oppure Jodi.org, clonato senza alcuna modifica, rendendo evidente come la proprietà per un’arte perfettamente riproducibile sia un qualcosa di obsoleto, che va superato. Liberando l’arte si favorisce l’arte, perché il materiale liberato è riutilizzabile, campionabile, mutabile. Ciò riguarda le arti visive, ma anche la musica, come insegnano gruppi come i Negativland. Decomporre i meccanismi di un’opera, come di un programma, per comprenderli, e poi modificarli a proprio piacimento, creando arte dall’arte. Un’altra loro opera è stata la creazione del dominio www.vaticano.org, un sito esteticamente identico a quello ufficiale della Santa Sede, se non per piccole ma significative variazioni. La loro battaglia per il copyleft (il diritto di copiare) e contro il culto della personalità si sta diffondendo di pari passo con la diffusione di tecnologie che consentono una copia identica dell’originale, ma anche con il diffondersi di movimenti planetari d’opposizione al copyright, che con una strana concezione di libero mercato viene applicato perfino a piante legate a popoli e culture. Il loro pubblico non è limitato a gallerie e musei (luoghi che pur non rifiutano, puntando non all’antagonismo ma alla massima visibilità), ma è anche e soprattutto quello di Internet, che visita il loro sito o uno dei siti da essi clonati.
La loro ultima opera è una performance d’ "allucinazione collettiva" che si chiama Nikeground (www.nikeground.com): riflettendo sull’invasività simbolica delle multinazionali nelle nostre vite, hanno installato nel centro di Karlplatz, storica piazza viennese, un ipertecnologico container di due piani chiamato Nike Infobox. Cartelli segnalano che quella piazza, luogo di memorie civiche collettive, si sarebbe, in linea con altre storiche piazze europee, presto chiamata Nikeplatz, ovvero una piazza dedicata alla Nike, una delle multinazionali più mediaticamente invasive al mondo. All’interno dell’Infobox, agghindato a dovere, sta un modellino in 3D del simbolo delle Nike, che - informa il personale - diverrà scultura di metri 36x18 posta al centro della piazza. Questa performance urbana, che ancora continua, ha creato in Austria accesi dibattiti, oltre che una denuncia dalla Nike, alla quale forse questi artisti hanno bloccato segreti piani futuri. La legge sembra però dare ragione a 01.org: come impedire ad artisti di manipolare simboli della vita di tutti i giorni?
Ma lasciamo la parola a questo gruppo di media artisti.
Nei vostri lavori il confine tra arte ed attivismo è quasi impercettibile; un po’ arte moderna della rivoluzione, un po’ rivoluzione dell’arte moderna. Quali sono i temi sui quali lavorate e quali i mezzi espressivi adottati?
Non abbiamo uno stile definito e riconoscibile, siamo proiettili vaganti, schegge impazzite, non sappiamo nemmeno cosa faremo domani, per questo lavoriamo "con ogni mezzo necessario": quotidiani, riviste, Internet, televisione, telefono, radio, peer-to-peer, fotografia, moda, architettura, performance. Forziamo i confini di ogni mezzo su cui riusciamo a mettere le mani. Una semplice telefonata, fatta al momento giusto, può mettere in crisi un intero programma televisivo; una lettera spedita alla persona "sbagliata" può scatenare una lotta tra quotidiani, una foto scattata in una soffitta a Parigi può diventare la prova di un omicidio avvenuto in un carcere serbo. Non ci interessa il medium: il messaggio è il messaggio.
Una delle vostre battaglie è per un’arte liberamente clonabile, e quindi mercificabile; da qui alcune vostre azioni per una libera fruizione delle opere di net art. Mi chiedo però se la liberazione dell’oggetto artistico sia di per sé sufficente, o se occore superare la mistica dell’autore, dell’atto ideativo-creativo; insomma, un ready made sono in grado di farlo tutti, la differenza la fa la firma "Duchamp"...
E’ ingenuo pensare che concetti come "mistica dell’autore" o "atto creativo" possano essere definitivamente abbattuti; potrei sostenerlo teoricamente, ma in pratica è tutt’altra storia. Quello che si può fare è modificare quotidianamente questi concetti allargandoli. Lo Walker Art Center di Minneapolis è uno dei musei d’arte contemporanea più importanti al mondo. Nel ‘99 siamo riusciti ad imporgli il no-copyright del life_sharing, uno dei nostri lavori più grossi. Molti altri hanno cominciato a sollevare richieste di questo tipo, ad imporre che i contratti venissero modificati a favore dei fruitori delle opere, invece che delle istituzioni. Pensa ad esempio al collettivo di scrittori Wu-ming che ha imposto il no-copyright all’Einaudi, o alla popband Negativland, che da più di vent’anni produce e vende la propria musica no-copyright. Per quanto circoscritti, questi sono risultati concreti, e valgono più di qualunque teoria.
E’ interessante la vostra idea di contrastare una delle multinazionali piu invasive dell’immaginario, la Nike, portando all’esasperazione la sua stessa invasività. Creare immaginari futuri, dove la lenta ma apparentemente inesorabile corrosione dei centri storici da parte di loghi e slogan di algide multinazionali sia portata a un grado estremo, e un atto crativo sottile ma estremamente efficace per sbattere il futuro in faccia al distratto passante, facendolo riflettere, seppur per un attimo soltanto. Nel caso della vostra opera "Nikeplatz", com’è proceduto il lavoro e quali risultati ha ottenuto?
Una notte, a Valencia, mi è capitato di mangiare una torta senza sapere che era stata "condita" con dell’acido lisergico. Per un giorno intero sono stata completamente straniata, giravo a vuoto per le strade e "vedevo" come la città sarebbe stata in futuro. L’esperienza è stata così surreale che ho pensato quanto sarebbe stato bello farla provare ad un’intera città. In principio non sapevo come ottenere tutto questo senza mettere dell’acido nell’acquedotto. Per coincidenza ci hanno dato a disposizione un container hi-tech nella piazza principale di Vienna, non capita mica tutti i giorni. Allora abbiamo colto l’occasione per concretizzare quella visione. Abbiamo pensato che inventarsi questa storia e diffonderla avesse più senso che fare la solita mostra. E così è stato. Per quest’opera volevamo usare un’intera città come palco per un’enorme performance: produrre un’allucinazione collettiva per alterare la percezione della città in modo totale e immersivo. Siccome a Vienna era in corso una protesta proprio sulla questione della privatizzazione degli spazi pubblici, questo rendeva la storia ancora più credibile. Tutto era semplicemente perfetto.
Le vostre azioni di smontaggio e ricostruzione semantica ricordano molto le azioni degli adbusters; cosa vi accomuna e cosa vi differenzia da questi?
Adbusters è solita sovvertire i messaggi pubblicitari perché la gente di volta in volta smetta di fumare o di mangiare cibi OGM per esempio. Noi non abbiamo una morale da trasmettere alla gente, siamo totalmente irresponsabili: creiamo delle situazioni paradossali, e poi stiamo in poltrona a osservare le conseguenze. La strategia è diversa: a differenza che nell’"Adbusting", il nostro pubblico è coinvolto involontariamente: viene attaccato, beffato, truffato, ingannato, raggirato, e scopre solo dopo di essere stato coinvolto. Può passare anche un anno prima che il pubblico si accorga di essere stato parte di una performance, come nel caso del falso sito del Vaticano, definito "il primo colpo di Stato in Internet": stette online dal 10 dicembre ’98 al 10 dicembre ’99 senza che nessuno dei 200.000 visitatori si accorgesse del dirottamento. Noi siamo molto più meschini di Adbusters...
Che significato hanno per voi le parole "arte", "autore", "originalità"?
Poco. L’arte è un mestiere come gli altri, solo che ti garantisce sempre un alibi. Autore è chiunque venga accreditato per qualcosa, anche se è solo parte di un meccanismo molto più grande e complesso, che coinvolge molte altre persone e trame. Trovo difficile parlare di originalità. Da una parte sono istintivamente contraria all’idea che possa esistere qualunque forma di originalità: il genio isolato dal mondo e ispirato dalla musa è un imbroglio, esistono solo persone che si scambiano informazioni e rielaborano quello che è stato detto in passato. La cultura è solo un enorme ed infinito plagio. D’altro canto, il mondo in cui viviamo è talmente banale e prevedibile che non si può negare ad alcuni una certa dose di originalità o di spirito: una visione. Ciò non significa che tutto quanto fanno sia oro colato, basta confrontare film come "Belli e Dannati" e "Will Hunting": il primo è un’opera d’arte, mentre e il secondo è una cazzata. Eppure il regista è lo stesso, Gus Van Sant. Smitizzare l’autore è importante, per ricondurre la sua opera a motivi e problematiche concrete e quotidiane, senza dover tirare in ballo la metafisica o la retorica delle accademie.
Per chi volesse approfondire il discorso della free net-art, quali siti consigliate?
I primi siti che mi vengono in mente sono: www.ubermorgen.com, www.rtmark.com, www.jodi.org, www.etoy.com e www.m9ndfukc. com. Ad un pubblico italiano consiglierei poi il libro "Net.art. L’arte della connessione", di Marco Deseriis e Giuseppe Marano, edizioni Shake. Per approfondire e tenersi aggiornati partirei da www. nettime.org, la storica mailing list europea su cui ci siamo formati un po’ tutti.