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Eliseo Mattiacci

Galleria Scudo di Verona: in uno spazio totalmente rinnovato le grandi opere dell’artista dialogano con i limiti apparenti dello spazio.

Partendo dalla forma primaria del corpo, dei suoi elementi (aria, acqua e fuoco) e di conseguenza della finitudine, il filosofo Anassimandro proponeva un’idea di infinitudine (àpeiron) che abbracciasse la natura e il cosmo, spazio e tempo, entro i quali l’uomo è chiamato a vivere. Una infinitudine che aveva il vantaggio di uscire dalle necessità della geometria, della ripetizione e del bisogno, di amplificare il proprio sé nella direzione onirica, mitica ed artistica. Nel sogno il sognatore è una personalità multipla che vive le sue possibilità in uno spazio-tempo amplificato; nel mito si snoda il racconto; nell’arte avviene la trasfigurazione del reale. Fuori dalla necessità geometrica delle formiche c’è la speranza di un cielo, spesso incomprensibile, le cui vie ci invitano all’esplorazione. Una cometa guidò tre re, una barca senza timone depositò oltre le colonne d’Ercole le spoglie di Giacomo l’apostolo in una località che fu chiamata Campus Stellae: due binari che oltrepassano un disco d’acciaio diventano l’altra faccia di un identico viaggio.

Eliseo Mattiacci: "La mia idea del cosmo".

Nell’ultimo caso parliamo di un’opera dello scultore Eliseo Mattiacci che, in forme arcaicizzate, nel chiuso di una galleria d’arte rimessa a nuovo, ci segnala un percorso laico lungo "le vie del cielo".

Allo Scudo di Verona (fino al 22 febbraio) l’artista sfida le geometrie di una stanza in un’opera che diventa porzione di infinitudine. In una stanza attigua si srotola quella che Mattiacci chiama "la mia idea del cosmo": "Alcune sfere di alluminio si son depositate sopra la coltre di piombo... sul tappeto fitto di pallini di piombo più grandi sfere, retaggio forse di una perduta perfezione" (Fabrizio D’Amico) rammentano echi di universi sconosciuti, remoti. Un mondo pensato come un insieme fluido in movimento viene visto nella sua momentanea stabilità. Più avanti i Captaspazio sembrano enormi ancore-amuleti che regolano le turbolenze, i rumori di fondo, le forze magnetiche ed attuano una dialettica del desiderio, un desiderio di instabilità in sintonia con le nuvole che si muovono mutando, che cambiano fase ad ogni istante e che non fanno pensare ad un unico punto di vista. "Volare sulle nuvole fa perdere l’essere e il rappresentare, per gettarsi a corpo morto nel follemente volubile. L’eternità si paga nell’instabile" (parola di Michel Serres). In "Equilibrio" e in "Porta del sole" lo spazio vuoto non esiste; lo spazio come campo di forze è visto come un occhio cosmico o, come scrive Veit Loers, le forme del cerchio, della linea e della curva hanno in sé l’intento di ottenere una sintesi dell’orbita solare "secondo una valenza quasi geroglifica" delle forme prime utilizzate come "mistificazione per intensificare l’espressività dell’opera". Già Brancusi nel ’38 con "La porta del bacio" aveva trasformato la scultura non in un’appendice-accidente dello spazio: con Mattiacci questa operazione va avanti, significato e significante, contenuto e contenente diventano tutt’uno, un guardare verso l’altrove.

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