L’ingiustizia di Johannesburg
Cronaca di una partecipante al Summit sullo sviluppo sostenibile.
Il Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile ha avuto luogo in Sudafrica dal 26 agosto al 4 settembre. Chi scrive ha avuto la ventura di andarci, e di partecipare intensamente alle attività per tutte e due le settimane della sua durata. E’ stata un’esperienza straordinaria in tutti i sensi.
Mentre volavo - dieci ore scomodissime di notte - mi sono chiesta perché ci stavo andando (come dice Christa Wolff, ci si fanno le domande solo quando si ha un disagio, ovvero "scrive solo chi non è felice"). Da un lato sentivo l’obbligo di andare: dopo tanti anni di impegno a favore dell’ambiente e della giustizia, anche nelle istituzioni, era forte il desiderio di essere e agire in un luogo dove fisicamente ci si incontra per decidere i destini degli esseri umani sulla Terra, e i temi annunciati erano lo sradicamento della povertà e la salvaguardia dell’ambiente, inteso come ambiente vivibile dagli esseri umani, perché il pianeta, anche senza di loro continuerà a vivere.
Dall’altra mi sembrava, nella lunga notte insonne, una grande presunzione il credere di poter contribuire a influenzare il risultato, là dove i grandi della terra e le grandi organizzazioni sociali e ambientali portavano voci forti e - come si è visto - in gran parte contrapposte.
Ma al ritorno, posso dire che non è stato inutile. Noi, piccole formiche sempre in agitazione, fra briefing delle delegazioni ufficiali, incontri sui diritti umani, sui diritti delle donne, dei bambini, dei lavoratori, sull’acqua e l’agricoltura biologica, manifestazioni di Gaia, grandissima rete mondiale che lotta contro l’incenerimento di rifiuti, attenti a scambiarci le informazioni e a fare pressione con colloqui, dimostrazioni, marce, a fare amicizia con persone e movimenti ambientalisti, sociali, dei diritti umani, forse il lavoro di ognuno di noi è servito a impedire il peggio.
E’ servito a capire molte cose. E’ servito a svelare l’ambiguità della posizione italiana, su questioni essenziali, come i principi di precauzione e di responsabilità, e sui diritti umani delle donne, con i piedi in due scarpe, quella della UE, con cui sono stati firmati i trattati e quella degli USA.
Alla fine, come si è lasciato sfuggire un alto funzionario delle delegazione italiana, gli USA e il WTO ("Non si è mai visto niente di simile, con WTO e USA che si sono comperati intere delegazione") sono riusciti a far fallire il summit, nato per realizzare un piano di attuazione concreto dei principi di Rio. Ma non è stato inutile.
Da un lato non si è tornati indietro sui principi, e dall’altro la mano che ha difeso con spietata durezza gli interessi delle multinazionali del petrolio e del cibo tecnologico, che ha messo i princìpi di Doha dell’organizzazione mondiale del commercio davanti a tutto, - ai diritti dei senza terra, dei morti di sete e di fame, delle donne oppresse e dei bambini sfruttati - ha dovuto mostrarsi al mondo, nel clamore dei fischi e delle proteste al discorso di Colin Powell, ambasciatore che ha portato pena.
E c’è stata una reazione: l’iniziativa sull’energia rinnovabile della UE, presentata da Prodi e Rasmussen e sostenuta da Schröder e Chirac, cui hanno aderito molti altri paesi fra cui il Brasile; l’impegno ad andare avanti nelle iniziative di partnership da parte degli enti locali (Comuni, Regioni, Province), riuniti in una sede separata per tre giorni intensi organizzati dall’ICLEI.
Sindaci e assessori eletti nelle assemblee locali hanno studiato come rendere sostenibili le città e le realtà regionali, in uno spirito per cui al nord si risparmia energia e si riduce l’inquinamento e al sud – soprattutto nelle immense megalopoli che stanno caratterizzando i paesi in via di sviluppo - si adottano sistemi per dare casa ai baraccati e si sviluppano energie rinnovabili e trasporti pubblici. La dichiarazione di Melbourne, dieci punti guida per i sindaci di buona volontà del mondo.
La vita dei delegati è stata durissima. Emotivamente e fisicamente. Molti si sono chiesti se non si poteva scegliere un posto più facile, in cui fosse possibile passeggiare per le strade e raggiungere le varie sedi del summit (Sandton per quello ufficiale, Ubuntu Village per le esposizioni, Nasrec per quello alternativo) senza troppa fatica e senza perdere ore e ore su shuttle e taxi. Tuttavia Johannesburg era giusta, in quanto città-simbolo dell’ingiustizia, dei contrasti sociali, ambientali, economici. E’ "normale" che alcuni vivano in case circondate da filo spinato o elettrificato e girino armati, e altri, migliaia, vivano per la strada, in ghetti senza speranza, senza servizi.
L’albergo dove stava chi scrive - diciassette piani occupati per lo più da centinaia di sindacalisti di tutto il mondo - era nel centro vecchio, Beria, abbandonato dagli abitanti bianchi alla fine dell’Apartheid e occupato dai senza casa immigrati dalle zone rurali, e degradato a slum pericolosissimo, dove di giorno ci si trascina in affari di sopravvivenza e di notte si spara e ci si azzuffa fino all’arrivo regolare di centinaia di poliziotti, che fanno un giorno sì e uno no inutili retate. Lo choc di salire in autobus verso la collina di Sandton, il nuovo centro costruito a tempo di record negli ultimi anni, dove si teneva il summit, è stato fortissimo. Mai ho visto, né nel Mall di Minneapolis (il più grande del mondo) né a Parigi o New York una tale ostentazione di ricchezza: i negozi di pellicce di Fendi, le scarpe Tod’s, e mille altri negozi e servizi di lusso, e le case intorno, circondate da parchi, campi di golf e di cricket, guardati a vista dalle guardie private. Fuori dal filo spinato, appena alzati, si vedevano i più poveri della terra ancora appoggiati ai muri, immersi nell’immondizia, dove avevano passato la notte gelida; mezz’ora dopo (o un’ora, gli orari non sono un concetto in Africa) l’entrata nel centro commerciale di Sandton era un impatto sconvolgente. Uno di quei negozi sarebbe sufficiente per dare l’acqua alle baraccopoli che sono sorte intorno a Soweto, la township creata dai bianchi per confinarvi un milione (almeno) di neri, la città di Mandela e dell’arcivescovo Tutu.
Ci siamo andati con i parlamentari europei dei verdi, soprattutto del nord Europa, a manifestare insieme ad un movimento di donne contro la violenza sessuale che è oltretutto causa di diffusione dell’AIDS. In Sudafrica c’è un 40% di sieropositivi o già ammalati, la stessa percentuale dello Zambia, da cui è venuta, ospite del Consiglio provinciale di Bolzano per la marcia Perugia-Assisi, Emily Sibawzke, del movimento Women for change. Ora nella enorme township vi sono molti lavori di miglioramento, ma intorno i senzaterra delle zone rurali e immigrati da paesi vicini in guerra creano immense distese di tetti di latta, e vivono senz’acqua, senza servizi, senza trasporti pubblici. Durante la marcia che voleva ricordare ai potenti della terra i bisogni dell’umanità, si è saliti da Alexandra, un immenso ghetto privo di tutto, verso il centro, passando da un mondo ad un altro.
E’ la differenza, ciò che colpisce in Sudafrica e nel sud del mondo, l’abisso che divide gli ultimi da chi ha tutto. E’ l’ingiustizia così concreta, così lacerante, così insopportabile.
Il Memorandum della Fondazione Heinrich Böll, (si trova anche in italiano in www.joburgmemo. org), giudicato dal giornale del summit il miglior documento presentato al vertice da una Organizzazione non governativa, scritto da un gruppo di studiosi di tutto il mondo, guidati da Wolfgang Sachs, propone proprio questa analisi: che la differenza oggi non sia tanto o solo fra paesi ricchi e paesi poveri, ma che sia diventata anche trasversale, da un lato i grandi consumatori di risorse al nord, dove sono la maggioranza, e al sud dove sono delle élite, e dall’altro lato gli esclusi del nord, e le grandi masse del sud del mondo, che non hanno accesso alle risorse necessarie alla sopravvivenza. La scommessa è di fare accedere alle risorse, soprattutto energetiche e dell’acqua, gli esclusi, tenendo conto che le risorse sono limitate e che quindi è un imbroglio promettere a tutti sviluppo sul modello dei paesi occidentali, caratterizzati da un consumo di risorse ben superiore a quel limite che è dato almeno dalla capacità della Terra di ripristinare o mantenere risorse sufficienti a garantire la vita nel futuro.
Il summit mondiale per lo sviluppo sostenibile aveva come scopo di approvare un piano di azione (plan of implementation, che si trova in www.johannesburgsum- mit.org/html/documents/sum- mit_docs/0409_plan_final.pdf) che riuscisse ad avviare l’attuazione delle dichiarazioni di Rio di dieci anni fa sulla riduzione delle emissioni di CO2 e sulla preservazione della biodiversità.
A dieci anni dal primo summit, che aveva riconosciuto il legame di interdipendenza fra la lotta contro la povertà e la tutela dell’ambiente, i dati sono sconfortanti. E’ aumentata la povertà, gli ettari di foresta pluviale, riserva di biodiversità che bruciano ogni giorno è addirittura aumentato, la terra dà segni di cedimento con i due fenomeni contrapposti ma collegati di inondazione e desertificazione.
Non solo per generosità e compassione verso gli ultimi, ma anche per egoismo, chi ha molto deve agire, subito, per attuare i segnali che sono venuti, nonostante tutto, dal summit di Johannesburg.