I Tenenbaum
Originale ed eccentrico il film del giovane regista newyorkese Wes Anderson: in cui divertimento e intelligenza vanno a braccetto.
In una foto, riportata da una rivista, Wes Anderson, giovane regista de "I Tenenbaum", sembra proprio uno dei suoi personaggi, altrettanto strano, per come si atteggia, per la messa in posa, per lo sguardo, fisso ma penetrante, connotando subito di eccentricità la sua figura. Eccentricità che è anche il carattere primo del film, costruito su un gruppo di personaggi e su degli ambienti anomali e alieni da schemi precostituiti, sorretto da uno stile personalissimo e originale, che intreccia surreale e grottesco, bizzarria, arte pop e iperrealista, da subito visibile in tutti gli interni, che aderiscono e riflettono le personalità, fortemente identificate e acutamente descritte, di coloro che li abitano.
A tal fine, ad esempio, il regista usa nel modo più espressivo e intelligente gli arredi, i dettagli colorati e vivi, gli oggetti che sembrano animati, e i costumi, uno, sempre lo stesso e tipicizzante, per ogni personaggio, dando al film quel tocco unico che lo rende avvincente, senza punti di paragone; e distinguendosi anche nel novero dei giovani cineasti newyorkesi indipendenti, da cui proviene e con cui condivide lo spirito derisorio e dissacratorio, con in più i requisiti che soddisfano la casa produttrice.
Si può ben dire che questo film è stato maltrattato nell’assegnazione dei premi del primo 2002, ma, in tempi di soffocante omologazione, intelligenza e originalità, quella autentica, non sono molto apprezzate, forse nemmeno riconosciute e capite.
E queste sono le qualità emergenti del film che, su una sceneggiatura singolare e perfetta, mette in scena la storia di una famiglia dalle complicate relazioni e caratteri, i cui componenti sono tutti talentosi, addirittura geniali, come i tre figli, bambini e adolescenti prodigio.
Un prologo, col supporto di didascalie lapidarie e ironiche dalla funzione chiarificatrice, li presenta: Chas (Ben Stiller), cupo, contegnoso e rancoroso, grande finanziere a 14 anni; Richie (Luke Wilson), fin da giovanissimo campione mondiale di tennis, mite e infelicemente innamorato di Margot (Gwyneth Paltrow), la figlia adottiva, celebre drammaturga a 12 anni, fumatrice segreta, sempre depressa, amatrice inquieta; Royal, (Gene Hackman), il padre, avvocato, mascalzone e simpatico, accomodante ed egoista, non amato in casa, affiancato come da un’ombra dal suo aiutante indiano; Etheline (Anjelica Huston), la madre, antropologa, di genuina trasparenza, amorevole, ingenua e sempre svagata; c’è anche Eli Crash, l’amico del cuore dei figli, innamorato di Margot, quasi un membro fisso della casa, con l’ardente desiderio di essere pure lui un Tenenbaum.
Tutti gli attori sono interpreti straordinari di questi personaggi, che san rendere umani nelle loro anomalie e in cui infondono la simpatia che attira qulla dello spettatore.
Ad un certo punto i genitori si separano e l’evento sarà seguito da una serie di fallimenti e disastri per tutti. Il racconto riprende poi, organizzato come un libro in capitoli che seguono vicissitudini ed evoluzione di situazioni e personaggi, 22 anni dopo, quando tutti i Tenenbaum, vissuti lontani e separati nelle vite, si ritrovano nella grande, variopinta casa di famiglia: qui ognuno porta, divenute adulte e più solide, le proprie bizzarrie e follie, ognuno, per personali motivi, triste, infelice e solo, vedovo o separato. A tirare i fili, e a radunare i frammenti sparsi e i vari pezzi di vita familiare, sarà Royal, lui pure geniale nel suo vivere di menzogna e simpatia, che, indebitato per amene traversie e propria leggerezza, desideroso nell’età più che matura di affetti familiari e di perdono, inventa per farsi accogliere un male terminale a breve traguardo, smascherato però presto dal gentile ed assennato fidanzato della madre (Danny Glover), che pure vive in famiglia.
E sarà proprio lui, così inaffidabile e spensierato, a rimettere in sesto i rapporti difficili o spezzati di figli, moglie, amici dei figli, a ridimensionare disperazioni e depressioni con uno sguardo disincantato ma sorridente e positivo, ad affacciare ai piccoli piaceri trasgressivi della vita e anche ai piccoli rischi i giovani nipoti tenuti nelle maglie di fobie e ossessioni del padre Chas, cioè a sdrammatizzare ciò che sembra solo malinconia o contrarietà e ricominciare a vivere in reciproca comunicazione.
In un ritmo incalzante, in un susseguirsi di inquadrature quasi geometricamente disposte, che paiono quadri pop o un album di ritratti, sulle note di musiche che passano dalle melodie classiche ai ritmi degli anni ‘70, mescolando il tono umoristico e il grottesco, il dramma e il sorriso, l’arguzia di riflessioni quanto mai realistiche sulla difficoltà degli equilibri familiari, viene rappresentata una normale quotidianità che diviene eccezionale, o folle, proprio per la sua messa in scena, impossibili entrambe da vivere, normalità ed eccezionalità, ma oltremodo fascinose e divertenti.
Poteva essere un melodramma melenso e seriale, con tutti quei guai e quelle complicazioni relazionali, invece la creatività e la maestria di Anderson hanno costruito un qualcosa di nuovo, dove ludico e divertimento non contraddicono senso e intelligenza di una storia familiare di ordinaria follia, che trova a sua modo una composizione quanto mai strana e articolata, proprio a sua immagine e somiglianza.