L’anima politica degli italiani
Astensionismo elettorale, disaffezione alla politica, crisi dei partiti... Tutto vero, eppure gli italiani sarebbero disponibili ad un nuovo impegno. Ma - secondo una ricerca - a certe condizioni...
Gli elettori aspirano ad un sistema elettorale maggioritario più coerente e ad un bipolarismo più compiuto. Fra i cittadini c’è una grande disaffezione nei confronti della politica. La forma-partito va reinventata. La gente è contraria al finanziamento pubblico dei partiti. Eccetera.
Sono affermazioni che da tempo si sentono ripetere continuamente, che ogni tanto - vedi il crescente astensionismo - ricevono conferme dai fatti, ma che in certi casi vengono date per buone una volta per tutte senza riscontri precisi.
Una ricerca effettuata nel gennaio scorso da un gruppo di lavoro congiunto delle società ASM (Analisi e Strategie di Mercato) e Sociometrica di Roma (intitolata "L’anima politica degli italiani") si è prefissa il compito di verificare appunto le opinioni e i sentimenti degli italiani su questi temi, sottoponendo ad un campione di 1.000 persone rappresentative della realtà italiana una lunga serie di domande che non solo intendono fotografare la realtà di oggi, ma anche prefigurare i possibili scenari futuri qualora si verificassero certi mutamenti della situazione. Per capire, insomma, se lo shock di Tangentopoli ha indotto la maggioranza degli italiani a gettare definitivamente la spugna.
I risultati della ricerca, accanto a molte conferme di quello che si poteva immaginare, offrono anche alcune sorprese e spiragli di ottimismo: è vero, i cittadini hanno poca fiducia nei partiti, tendono ad estraniarsi dalla politica, ma a determinate condizioni molti di loro tornerebbero ad impegnarsi, anche se in modi diversi rispetto al passato.
Ma vediamo le risposte alle domande più interessanti.
Soggetto politico di riferimento secondo il voto del 1996
Rispetto a 5 anni fa, la politica interessa meno gli italiani per il 44.7%, contro un 19.7% che se ne occupa di più; una disaffezione che cresce col crescere dell’età, e che sembra riguardare in misura non molto diversa gli elettori dell’Ulivo, del Polo e della Lega (le tre aree prese in considerazione); si distinguono invece per disinteresse le persone meno scolarizzate e residenti nei centri più piccoli. Da questi ed altri dati, gli autori della ricerca concludono che "la rottura di fiducia fra collettività e politica è avvenuta soprattutto nell’area più debole della società, fatta da persone che vivono nelle aree meno ‘moderne’, con un livello culturale più basso e una collocazione socio-economica ugualmente bassa".
Tangentopoli mostra di aver lasciato un segno profondo anche quando si chiede quale sia la qualità principale che dovrebbero avere i dirigenti politici: al primo posto troviamo infatti (57.3%) l’onestà, seguita a grande distanza dalla competenza (17.2%), dalla coerenza (13.1%) e dal legame con la gente (12.4%). L’onestà è richiesta in misura crescente col crescere dell’età degli intervistati, ma rimane comunque al primo posto presso tutte le fasce d’età, passando dal 40.7% fra i 18-24enni al 72.2% per gli ultrasessantacinquenni. Questo dato è comprensibilmente alto (65.8%) anche presso i cittadini che non hanno votato alle elezioni del ’96, "e perciò si può indicare nella percezione della sua (dell’onestà, n.d.r.) assenza uno dei motivi di non partecipazione alle votazioni"; ancora, questa qualità è maggiormente richiesta dagli elettori della Lega" (60%, contro il 50% per gli elettori del Polo e il 55.5% per quelli dell’Ulivo).
Una curiosità: la coerenza è più richiesta dagli elettori del centro-destra, mentre il centro-sinistra premia di più la competenza.
Qualità principale dei politici, secondo il voto del ‘96 (valori %)
Malgrado tutto (sfiducia nell’onestà dei politici, diminuzione di partecipazione, ecc.), gli italiani non sembrano però essersi rifugiati in massa nel qualunquismo. Certo, anche il loro giudizio sulla selezione del personale politico e la scelta dei candidati alle elezioni è pesantemente negativo, con poche differenze fra Ulivo e Polo (fa eccezione la Lega, dove gli scontenti sono una minoranza, "configurandosi così come la forza politica più tradizionale, più continuista rispetto ai partiti politici ‘piramidali’ del passato, che affidavano tutte le scelte fondamentali ai vertici del partito"). Ma al posto del professionismo che da sempre caratterizza la politica italiana, non si avanzano però delle soluzioni utopistiche e demagogiche: quasi il 70% degli intervistati accetta l’idea di persone che si occupino professionalmente di politica; insomma, "non ci si illude di sopprimere il professionismo in politica. Si cerca un mix più equilibrato, non un azzeramento dell’attuale realtà".
Per operare questo cambiamento, il campione privilegia in larghissima maggioranza (sopra il 70%) lo strumento delle elezioni primarie per la scelta dei candidati e del segretario del partito preferito; e anche qui la Lega si distingue, con numeri molto più bassi.
E più numerosi del previsto anche se minoritari (41.2%) sono le persone che si dicono disposte a finanziare con una quota delle imposte il partito (o lo schieramento) di riferimento; e questo con poca differenza fra le varie aree: si va infatti dal 45.% degli elettori del Polo al 48% dei leghisti, al 51.9% dei sostenitori dell’Ulivo. Ad abbassare la media provvedono, col 28.2%, quei cittadini che alle ultime politiche non hanno votato. Ma anche una percentuale di costoro (circa 1/6) cambierebbe idea qualora venissero riformate le modalità di selezione del personale politico, ad esempio con elezioni primarie per i candidati e i segretari di partito.
Risposte alla domanda:Lei è contento di come in genere vengono scelti i candidati alle varie elezioni ? Secondo il voto del 1996 (valori %)
Particolarmente interessanti appaiono le risposte alle domande che riguardano l’atteggiamento degli italiani nei confronti della politica così come si è venuta evolvendo negli ultimissimi anni, e ci riferiamo al peso crescente dei "personaggi" rispetto alle ideologie, al bipolarismo, all’appeal del sistema elettorale maggioritario.
Ad esempio: nel decidere il voto, cosa viene maggiormente preso in considerazione? Quel che conta di più (41.2%) è la figura del candidato, e solo dopo vengono il partito (26.7%) e la coalizione (20.1%); c’è infine un 12.1% che si dice indifferente o che si regola in maniera diversa a seconda del tipo di elezioni. Può essere interessante, al proposito, constatare che fra chi ha votato, gli ulivisti sono gli unici che privilegiano la coalizione rispetto al partito; alla coalizione - e anche questo sarebbe interessante da spiegare - guardano con più attenzione gli uomini (28.3%) rispetto alle donne (12.3%).
E veniamo al bipolarismo. Il questionario offriva tre possibili opzioni: la prima prevedeva al massimo la presenza di tre schieramenti; la seconda affermava la necessità di "un numero sufficiente di partiti per rappresentare le tendenze politiche più importanti"; la terza, infine, sosteneva la necessità di avere sulle liste elettorali "tutti i partiti che nascono spontaneamente dalle dinamiche del paese". E’ un trionfo del bipolarismo col 73.2%, mentre il proporzionalismo "regolamentato" ottiene il 23.4% dei consensi, e quello puro appena il 3.2%. Abbastanza scontate le differenziazioni fra gli elettori dei tre schieramenti: i più bipolari appaiono quelli del centro-destra (82.4%), seguiti dall’Ulivo (70.4%) e dalla Lega (64%).
Modello ideale di offerta politica in Italia, secondo il voto del 1996 (valori %)
Altra questione interessante riguarda le aspettative degli elettori per quanto concerne la natura e il comportamento dei partiti; questioni investigate con domande come "E’ preferibile avere partiti più trasparenti e più ‘democratici’ o partiti più decisionisti e compatti? E’ preferibile, in politica, decidere velocemente, anche non tenendo conto della voce di tutti, o decidere tenendo conto della voce di tutti, anche se più lentamente?" Eccetera.
Per non sottoporre i lettori ad un’orgia di cifre, ci limitiamo a riportare le conclusioni dei ricercatori in merito a questa sezione del questionario: "Si delinea un quadro abbastanza equilibrato...; gli italiani non sembrano voler rinunciare ai partiti in quanto tali, ma li vorrebbero sicuramente ‘democratici’, cioè capaci di dialogare con i rappresentati. La richiesta è che i partiti siano più trasparenti, riescano a recepire la voce del paese e nel contempo siano capaci di trasformare questa capacità di ascolto in capacità di decisione, di intervenire efficacemente nelle cose". Ai partiti si chiede "un ruolo più di guida che di gestione, più di interpretazione del sentimento collettivo che di sovrastruttura che occupa spazi destinati, nella percezione degli intervistati, alla società civile. Una politica che conti di più in ambiti però meno grandi".
Se la situazione si evolvesse nella direzione così indicata, al 17.5% di cittadini che affermano di partecipare in vario modo alla vita dei partiti, si aggiungerebbe un altro 15%, che porterebbe ad un totale (32%) di tutto rispetto. Di contro, abbiamo un nocciolo duro del 53.8% che in nessun caso farebbe politica attiva, mentre il restante 13.7% è rappresentato da incerti e scettici.
Molto apprezzato per riformare la vita dei partiti è il referendum interno su questioni importanti e controverse (parità scolastica, droghe leggere, bioetica, ecc.) o che comunque contrassegnano la strategia di un partito; uno strumento che dà al cittadino l’impressione di contare e al quale si dice pienamente disponibile il 56.8% del campione: "La forma del referendum - è il commento - è vista come qualcosa insieme di semplice, che non occupa troppo tempo, e di decisivo, di realmente incidente nel processo decisionale".
Ma per un pieno recupero di interesse alla partecipazione politica, gli italiani vogliono qualcosa di più: solo il 13.9% sostiene infatti che "vanno bene i partiti di oggi", mentre il restante 86.1% dice che "ci vorrebbe qualcosa di nuovo". Quest’ansia di novità - che tocca in modo particolare chi ha votato per il Polo - agli autori della ricerca non sembra tanto rivolta alla ricerca di ulteriori sigle che vadano a rappresentare chissà quali ideologie emergenti; deriva piuttosto da un bisogno di contenuti, di nomi, di modalità di comunicazione più soddisfacenti rispetto a quanto oggi offre il "mercato" della politica. Quel bisogno, del resto, già espresso con le risposte che abbiamo fin qui analizzato.
Dalle quali i ricercatori traggono alcune conclusioni generali fondamentalmente ottimistiche, anche se - a nostro modesto avviso di non esperti in tema di sondaggi - forse occorrerebbe qualche cautela. Abbiamo tutti constatato, in varie occasioni elettorali, come questi sistemi di rilevazione dei sentimenti dell’opinione pubblica siano affidabili fino a un certo punto. Sono state le stesse società autrici di certi exit-poll dimostratisi a cose fatte ingannevoli a spiegarci ad esempio che gli elettori, soprattutto di certi partiti, provano un qualche pudore a confessare di aver dato quel voto, e mentono in misura statisticamente rilevante. Qualcosa di analogo potrebbe forse essersi verificato anche a proposito di queste domande: è verosimile, insomma, che più d’uno degli intervistati, vergognandosi di ammettere un qualunquismo senza più ritorno, ipotizzi un proprio interessamento e una partecipazione alla cosa pubblica nell’eventualità di un mutamento di condizioni al quale in realtà non aveva mai pensato e che i ricercatori gli prospettano, contribuendo così ad infoltire la schiera dei "disponibili".
Detto questo, ecco alcune conclusioni dello studio: "La nuova partecipazione alla vita politica del paese non può essere da spettatori, ma da protagonisti pieni, da ‘decisori’. La vecchia partecipazione era fatta di iscrizione al partito, frequentazione delle sezioni; era una pratica quasi didascalica, educativa, votata quasi naturalmente alla formazione della classe dirigente attraverso la cooptazione. La formazione delle decisioni interne era un processo lento, pieno di sfumature che via via trovavano sintesi in un’amalgama continuamente in fase di aggiustamento, senza mai veri vincitori né vinti. Oggi questo schema appare non più riproducibile...
Gli italiani oggi alimentano, sotto la cenere della disaffezione, il desiderio di poter partecipare in maniera efficace alle decisioni politiche più importanti; chiedono però ‘sense events’, eventi che abbiano un senso, un significato e in cui si decida davvero... Si è di fronte a una grande voglia di partecipazione alle decisioni politiche, da realizzare in un processo veloce, efficace, che non richieda un impegno in termini di tempo, che oggi ognuno sente di non poter offrire come in passato... Vi è una grande ansia di partecipazione non da spettatori televisivi, pronti ad applaudire l’una o l’altra battuta del leader di turno, ma come detentori della legittimità delle decisioni politiche...
C’è poi un aspetto d’ombra in questa voglia di nuova partecipazione: l’ombra della delega (secondo gli italiani, la politica dovrebbe essere fatta da professionisti), perché oggi la politica, l’amministrazione sembrano essere concepite come funzioni socialmente meno pervasive rispetto al passato e perciò in parte delegabili. Dentro l’idea della delega c’è qualcosa che è un misto di sfiducia post-shock, conseguente ai fatti di Tangentopoli, e di modernità minimalista, dove quel che conta è quel che è prossimo e non quel che è astratto, quel che è personale e non quel che è collettivo.
La formula della politica sognata dagli italiani sembra perciò un mix di partecipazione e di delega, dove la partecipazione deve essere quella che decide, fatta in tempo reale e ristretta alle cose per cui davvero conta l’opinione di tutti; nella delega gli italiani vedono l’affermarsi di un sistema politicamente neutro di buona amministrazione, in cui ognuno si possa concentrare sul proprio piccolo universo, dove la politica abbia un suo spazio, significativo ma occasionale".