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Ai confini del Paese che non esiste

Verso il Kurdistan con un carico di medicinali. Da "Sabato sera" settimanale di Imola (Bologna).

Barbieri Daniele

Volevamo arrivare nel "Paese che non esiste" e non ci siamo riusciti; eppure, lungo il viaggio e nei lunghi giorni di attesa sul confine, abbiamo imparato molte cose.

Duecento chili di medicinali per i profughi kurdi, raccolti dall'associazione "Bologna per il Kurdistan" grazie a collette e concerti ma anche donati dalle farmacie comunali bolognesi e da tre medici. Siamo in 6 a portarli e abbiamo con noi anche una lettera del sindaco di Marzabotto (città martire dei nazisti) agli amministratori di Aliabjan, nel decimo anniversario dell'eccidio voluto da Saddam Hussein. Vogliamo portare i farmaci in quelle zone dove altre organizzazioni umanitarie non sono arrivate, e verificare se sia possibile gettare le basi per un futuro intervento sanitario stabile. Vorremmo anche tornare con immagini e storie da uno Stato che non c'è, perché il Kurdistan del nord, per alcuni, è il primo frammento di un futuro Paese libero, ma per molti deve restare una "zona di protezione" riservata a profughi dall'incerto destino e dalla limitata autonomia, mentre per la Turchia perfino questo piccolo tassello kurdo è una minaccia: con il pretesto di inseguire i guerriglieri del Pkk, le truppe turche - ben armate dall'Occidente, Italia compresa - sconfinano, bruciano villaggi e uccidono.

Impossibile arrivare nel Nord-Kurdistan attraverso l'Irak o la Turchia, molto difficile passare dall'Iran. Un po' più tranquilla sembra la frontiera siriana, da dove già transitano organizzazioni umanitarie. Poche ore prima di partire, però, veniamo a sapere che il confine è chiuso, per motivi non precisati (sapremo poi che una delle ragioni è l'ennesima offensiva turca); decidiamo di tentare lo stesso. Dopo una sosta infruttuosa a Damasco, andiamo a El Kamischli sul confine fra Siria e Kurdistan; il governatore della zona ci assicura di fare tutto il possibile, lasciando intendere che fra un paio di giorni potremo partire. E invece restiamo fermi per una settimana, prima di rinunciare.

Un'impresa fallita? Sì, perché non siamo arrivati a destinazione. No, per almeno due ragioni: lasciamo le medicine in buone mani (dunque andranno a chi ne ha davvero bisogno), e gli incontri avuti sia a Damasco che a Kamischli ci sembrano importanti sia da un punto di vista solidale che per meglio capire. Vale la pena, allora, raccontare alcuni momenti di questo viaggio.

I colori del Kurdistan - giallo, rosso e verde - si incontrano ovunque nelle feste di matrimonio, nelle case povere e in quelle un po' più ricche, nei quaderni dei ragazzi. Appena si entra in argomento, molti fanno il segno della "V", ma le dita sono schermate dal palmo della mano, per ricordare che la vittoria kurda è considerata un'utopia pericolosa e che quel semplice gesto può costare il carcere (o peggio), in Turchia.

Ci offrono di accompagnarci in alcune case di kurdi, per vedere con i nostri occhi. "I martiri sono vivi" - leggiamo nella prima casa: sul muro, la bandiera del Pkk e le foto di Abbas e della sorella Rihan, uccisi rispettivamente nel '92 (a 27 anni) e nel '93 (a 18 anni).

"Viviamo in Siria da un secolo, ma continuiamo a credere che i kurdi abbiano diritto ad una patria. - raccontano i genitori - Ogni popolo ha diritto ad essere libero sulla sua terra. Siamo 40 milioni: perché non possiamo avere un nostro Stato ? I turchi hanno incendiato tremila villaggi kurdi e bruciato i boschi dove vivevamo. Ci hanno costretti a combattere e noi continueremo fino alla vittoria".

Un'altra casa con i ritratti di due martiri, Mehdi e Daoud, morti nel 1986 e nel '90: la madre dice con orgoglio che anche un altro figlio è in montagna a combattere: "Sono 10 che ho insegnato loro l'amore per il Kurdistan ".

Entriamo in un'abitazione poverissima, dove una donna ci racconta dei suoi quattro fratelli martiri. Sul muro, le foto di tre ragazze che nel '96 si fecero saltare in aria con azioni suicide contro i turchi. Nella casa accanto, il padre mostra le foto dei due figli morti, e di due "in guerra". Un lungo discorso sull'orgoglio kurdo e sulla battaglia "contro l'ingiustizia quotidiana che il popolo subisce ". Poi un invito: "Dite ciò che avete visto, fate il vostro lavoro con coscienza". Chiediamo a un altro kurdo che vive in Siria (sua sorella è morta in combattimento) di spiegarci perché tutti qui appoggiano il Pkk e non si fidano delle altre organizzazioni. "La differenza - ci risponde - è che solo il Pkk vuole l'autonomia per tutti ikurdi, ovunque vivano. Gli altri sono partitini locali, interessati solo alle loro tribù e condizionati, ormai da 40 anni, dall'appoggio di Stati totalitari che continuano a opprimere il nostro popolo. Impossibile un dialogo fra il Pkk, popolare e democratico, e partiti feudali che vengono sostenuti dai nostri stessi nemici. Per questo il Pkk è radicato in tutti gli Stati dove i kurdi vivono ".

A cosa mirano le ripetute incursioni turche?

"Dicono di dare la caccia ai guerriglieri, ma i veri terroristi sono loro: distruggono i nostri villaggi e poi, quando arriva la tv, lasciano qualche mitra in giro per far credere che lì c'era il Pkk. Mentre cacciano i kurdi, incoraggiano l'emigrazione in queste zone dei turcomanni, che infatti erano un milione prima della guerra del Golfo ed ora sono raddoppiati ".

Sarà una lotta ancora lunga?

"Sentiamo vicina la vittoria. Dal 1984 ci siamo rafforzati politicamente, anche nelle città turche e nell'emigrazione, oltre che militarmente. La nostra causa oggi ha molti amici nel mondo e ci sentiamo più forti quando sentiamo che il Parlamento belga e quello italiano discutono del nostro diritto all'autodeterminazione. La nostra strategia è arrivare a uno Stato kurdo, ma il primo passo consiste nell'ottenere che il nostro popolo goda di autonomia in ciascuno dei quattro Stati in cui vive ".

Non siamo riusciti ad avere un incontro con i dirigenti del Pkk, ma a Damasco abbiamo parlato con due giovani militanti, lui di ritorno dalle montagne e lei in procinto di partire: "La nostra forza è stare fra la gente, nei loro sogni. Molti giovani kurdi vivevano senza prospettive, umiliati, senza neppure il diritto di andare a scuola e parlare la propria lingua. Oggi hanno una speranza e lottano per questo. Tante ragazze combattono o sono impegnate nel lavoro politico: dentro la liberazione del popolo kurdo, le donne hanno un posto speciale ".

La Turchia è oggi il principale focolaio di destabilizzazione. Sono gli Stati Uniti ad appoggiare le continue provocazioni dei militari turchi; in cambio ottengono l'uranio del Kurdi-stan, mentre il petrolio è ai minimi storici, grazie all'embargo contro l'Irak. Un embargo che vuoi dire fame per gli irakeni. In questa parte del mondo si susseguono orrori che ricordano il nazismo, eppure i mass media chiudono gli occhi. Se i giornalisti venissero qui, dovrebbero raccontare che i soldati turchi non inseguono i guerriglieri kurdi, ma radono al suolo pacifici villaggi.

C'è poi un altro gioco diabolico: creare tanti partiti kurdi e metterli l'uno contro l'altro per disorientare la gente ".

Questa durissima analisi è di Antonio Ayvazian, vescovo vicario di Kamischli, che pure si definisce "un realista moderato ". Con lui siamo andati a vedere il santuario di Sannareg, dove vengono conservate le ossa dei martiri armeni del 1915. Qui intorno abitano circa 1.500 persone: famiglie armene e kurde che sfuggirono alle stragi del 1915. Uno fra i più grandi genocidi del secolo, eppure la memoria collettiva lo ignora: gli armeni erano tre milioni e i turchi ne massacrarono la metà. "Solo negli anni '80 alcuni Paesi europei hanno riconosciuto l'esistenza di queste stragi. - ricorda padre Antonio - La pulizia etnica fu pianificata a tavolino: i turchi evacuarono i villaggi armeni dicendo che portavano la gente in zone più sicure, lontane dalla guerra. Poi, il massacro ".

I kurdi non vogliono fare la stessa fine.

Da qualche anno è di moda dire che la globalizzazione deve aprirci gli occhi sulle crescenti connessioni fra le varie parti del pianeta. Una frase ormai stracitata riassume così questo concetto: "Se una farfalla batte le ali in Bomeo, può provocare un terremoto in Canada". Il Kurdistan può apparire lontanissimo da noi, incomprensibile a molti. Ma, se pure decidessimo di mettere da parte ogni questione legata alla giustizia e ai diritti, tre cose sono chiarissime. Lì, nei dintorni del Paese che non c'è, brucia una miccia che può far deflagrare per l'ennesima volta ciò che chiamiamo Medio Oriente.

E quando alle frontiere di Italia o Germania arrivano ondate di clandestini kurdi, è perché la "farfalla" turca ha battuto le ali: cioè continua a scacciare (con armi anche italiane e tedesche) il popolo kurdo dalla sua terra, spingendo così migliaia di persone a una fuga disperata.

Da queste due evidenze ne discende una terza: la ricerca di una soluzione pacifica riguarda anche noi.