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QT n. 6, giugno 2025 Servizi

Un referendum per il lavoro

I diritti e la dignità dei lavoratori e la qualità della nostra economia. Per questo andiamo a votare .


L’8 e il 9 giugno si vota per i referendum su lavoro e cittadinanza. E’ l’occasione per ampliare i diritti e le tutele delle lavoratrici e dei lavoratori. Da oltre un ventennio, infatti, la legislazione sul lavoro li ha progressivamente resi più fragili, più ricattabili, più poveri e più insicuri.
Ci hanno voluto far credere che la deregulation avrebbe portato ad un incremento di occupazione e della ricchezza del Paese.
Ci hanno voluto far credere che i diritti erano la gabbia della crescita.
Ma così non è. Nel 2023 la produttività del lavoro in Italia, cioè la ricchezza prodotta dal singolo lavoratore, è crollata del 2,5% e in parallelo cresceva l’occupazione. Dato, quest’ultimo, che dovrebbe essere visto positivamente dal sindacato: e invece la somma dei due fenomeni ci dice che si è creata occupazione di bassa qualità e senza investimenti in settori ad alta qualificazione. Il lavoro ha perso di vista la dimensione della dignità e della valorizzazione della persona.
E’ per questo che molti in Italia e anche in Trentino diventano poveri pur lavorando. Nella nostra provincia 60.000 persone sono a rischio povertà. Questo anche perché le retribuzioni sono basse e le occupazioni precarie. E chi è precario è anche ricattabile, sempre, sul piano delle tutele, dei diritti e delle garanzie.
Il referendum è l’occasione per aprire una discussione sul lavoro e prendere atto che il modello adottato fino ad oggi non ha funzionato. Il referendum è l’occasione per provare a cambiare le cose in meglio. Non è vero che i quesiti sono troppo tecnici, che non toccano la vita delle persone.
E’ l’esatto opposto.

I licenziamenti illegittimi:
per una pallina di carta
Il primo quesito chiede l’abolizione integrale di parte del Jobs Act. Le persone assunte dopo il 7 marzo 2015 non sono coperte dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quindi sono meno garantite di quelle contrattualizzate prima, in caso di licenziamento illegittimo.
E’ una cosa fuori dal tempo? Assolutamente no, come dimostra la storia di un giovane lavoratore di una grande azienda industriale trentina. Impresa non sindacalizzata. Il giovane ha l’unica “colpa”, di decidere di provare a portare il sindacato dentro l’azienda che ama, in cui lavora bene e per cui nutre una stima ricambiata dai titolari. Un errore che gli costerà il posto di lavoro. Al primo piccolo sbaglio, il lancio per scherzo di una pallina di carta ad un collega, l’azienda gli fa una contestazione disciplinare.
L’operaio, mai immaginandosi cosa sarebbe potuto accadere, ammette e chiede scusa. Ma viene licenziato. Il sindacato non ha prove documentali che possano dimostrare un licenziamento discriminatorio, legato al suo impegno per la sindacalizzazione di quella realtà. A causa del Jobs Act il ragazzo viene posto davanti alla prospettiva di dover affrontare un processo per ottenere, al massimo, quattro mensilità lorde, cosicché accetta l'offerta conciliativa di due mensilità nette. Ai suoi colleghi arriva, però, un messaggio di intimidazione.
Se vince il sì, questo lavoratore avrebbe avuto diritto ad essere reintegrato e, sapendolo, l'azienda non lo avrebbe neppure licenziato.

Piccole imprese:
una vita di lavoro cancellata
Va peggio nelle imprese più piccole. La legge prevede attualmente che in caso di licenziamento illegittimo il risarcimento massimo siano sei mensilità, a prescindere dall’anzianità, dai carichi familiari, dai bilanci aziendali, eccetera.
E’ così che una lavoratrice di una piccola industria metalmeccanica trentina, con alle spalle 25 anni di servizio, e un contratto part time, viene licenziata per soppressione della mansione. Nessuna motivazione reale, l’azienda vuole solo liberarsene per prendere qualcun altro, magari più giovane.
Se il giudice del lavoro riconoscerà che questa lavoratrice è stata licenziata ingiustamente avrà diritto a un massimo di 6 mensilità lorde, che nel suo caso, essendo part time, equivalgono a 4.500 euro netti. Un licenziamento immotivato, illegittimo, che cancella una vita di lavoro e sacrifici, verrebbe risarcito, se va bene, con un importo ridicolo. Se vince il sì, sarà il Giudice a quantificare l’indennizzo, che dunque potrà essere più alto (e le aziende, sapendolo, ci penseranno due volte prima di licenziare senza motivo).

Contro la precarietà a vita
Il terzo quesito ha l’ambizione di ridurre la precarietà lavorativa in un Paese, l’Italia, in cui un contratto a tempo su tre non dura più di un mese. Questo vuol dire che si può essere precari per sempre. E’ quanto accade ai lavoratori e alle lavoratrici anche dei più blasonati musei trentini. Persone con alte competenze, pagate poco più di 10 euro lorde l’ora, la cui vita è sempre sospesa perché appesa al rinnovo di un appalto. Persone anche con contratti a chiamata, che vuol dire che lavori quando c’è pubblico e stai a casa, senza stipendio, quando le prenotazioni languono.
In Trentino i contratti a tempo sono quasi il 20% del totale, mentre tra i giovani e le donne la percentuale raddoppia. Se vince il sì le aziende potranno continuare ad attivare contratti a tempo, ma dovranno vincolarli ad una motivazione specifica. E’ un limite alla precarietà a vita.

Subappalti e infortuni:
l’incidente mortale non risarcito
Il quarto quesito parla di responsabilità del committente in caso di infortunio sul lavoro. Oggi, se ti fai male e sei dipendente di una ditta in appalto o subappalto, hai il rischio di non essere nemmeno risarcito. Il che accade molto più spesso di quanto si pensi. In Trentino, poco più di una settimana fa, un ragazzo di 25 anni ha perso la vita in un’azienda di Roncone. Ore dopo l’incidente è emerso che era un dipendente in appalto. Non sappiamo quale contratto commerciale ci fosse tra la ditta committente e l’impresa che svolgeva i lavori, peraltro una srl semplificata con un capitale sociale minimo.
Quel che è certo è che la giovane moglie dell’operaio ha perso il marito e con esso anche l’equilibrio economico della propria famiglia. Se vince il sì, si rafforza la sicurezza sul lavoro e si riducono gli infortuni, perché le aziende dovranno aumentare la prevenzione anche nei casi di esternalizzazione. Purtroppo la possibilità di delegare le responsabilità ha avuto come effetto quello di parcellizzare il lavoro in una giungla di appalti e subappalti.

Per 10 anni cittadino di serie B
L’ultimo quesito, il 5, riguarda la cittadinanza e chiede di ridurre da 10 a 5 gli anni necessari per richiederla. Nulla cambia sui requisiti che lo straniero deve possedere. Se vince il sì viene superato un modello che oggi crea cittadini di serie A e di serie B, e tra questi ultimi ci sono lavoratrici e lavoratori migranti che pagano le tasse e contribuiscono a far andare avanti il Paese, ci sono bambini e bambine di origine straniera ma nati in Italia, che spesso parlano solo italiano e frequentano le scuole insieme ai nostri figli.

Perché votare
L’8 e il 9 giugno è importante andare a votare, perché abbiamo la possibilità di scegliere in modo diretto che Paese vogliamo, se un Paese dove si allargano le diseguaglianze, dove il lavoro è nient’altro che merce e dove i diritti non valgono più, o un Paese in cui il lavoro è dignità, è sicurezza, è libertà. Questa è una battaglia di civiltà.
Non solo: è in gioco cosa vuol essere l’Italia. Se un paese che ha un’economia avanzata, innovativa, oppure basata sullo sfruttamento e l’umiliazione dei lavoratori.
La decisione spetta a ciascuno di noi. Non votare, però, è rinunciare a rendere viva la nostra democrazia.
* * *
Andrea Grosselli è segretario generale della Cgil del Trentino.

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