Orsi e conformismo: nelle valli, chi è “il predatore”?
Nel numero di aprile avevamo recensito il romanzo breve “Il predatore” di Marco Niro. Un libro che, partendo dalla fobia dell’orso, dipinge un quadro fosco della realtà delle nostre valli: conformista, chiusa in se stessa, facile preda non dell’animale, ma di se stessa, del più cinico dei suoi faccendieri e politicanti. E’ questa la realtà? Oppure è un’esagerazione? O, peggio, una favola negativa, descritta da chi vive in città? Abbiamo invitato i lettori, soprattutto di valle, a rispondere a questi quesiti. Un tema che, come il libro, ha interessato, e ci sono arrivate alcune risposte che qui, con piacere, pubblichiamo. Altre ne presenteremo nel prossimo numero
“Una rosa è una rosa, è una rosa, è una rosa” … e un libro è un libro. Come appunto il romanzo "Il predatore” di Marco Niro.
Non solo un buon noir, ma anche la restituzione di una realtà che può benissimo appartenere a uno dei tanti Comuni trentini. Certo, nei comuni trentini, non ci sono i morti ammazzati ma le coscienze sepolte e intorpidite si vedono eccome: il risultato di un governo ormai fascioleghista su vasta scala.
Non serve essere dei Cimaltesi per capire che anche da noi dominano i poteri forti, magari anche le mafie, quella bianca per intenderci. Non credo che qualcuno possa offendersi per questo romanzo che parla non solo del difficile rapporto dell’uomo con la natura, ma anche delle paure insite nella società trentina. Alla paura del diverso, di chi si permette di criticare, di dissentire ed esporsi in prima persona. Non c’è più nessun confronto, dialogo ed accettazione di chi la pensa diversamente. Da qui nasce l’astensionismo, l'assenza di vere minoranze nei consigli comunali, la perdita di idealismi e aneliti di libertà. Penso al volontariato gerarchico e non partecipativo, in cui impera il “tasi e tira”. In cui prevale la cultura del branco. Estremizzando e rifacendomi al racconto: il trionfo della follia della massa, che pone in parallelo la società pilotata dai media non più cani da guardia del potere.Credo che ribellarsi sia ancora giusto, anche se faticoso e rischioso. A me è capitato nel mio paese di essere querelato dal Sindaco e dal Presidente della Pro loco (padre e figlio). Condannato dal giudice di pace, ho deciso di non appellarmi e pagare quanto stabilito, ma non di stare zitto.
Certo, e Niro ce lo dice nel bel “post epilogo”: bisogna avere speranza e decidere che cambiare si può e si deve.
Aldo Collizzolli,
bibliotecario nelle Giudicarie
Mia mamma ha 85 anni, vive in un paesino montano ed è la più buona persona della terra. Mia mamma ha paura degli orsi, dei soldati e di chi non conosce: per prevenzione, ha attaccato un grosso campanaccio per mucche alla finestra che dà sul vano scala. Mia mamma non teme i cacciatori. Suo padre, mio nonno Giovanni, fu cacciatore di volatili e lepri per portare carne alla famiglia e fu mandato a fare la Grande guerra contro i russi sui Carpazi assieme a suo padre, mio bisnonno Santo, cacciatore per necessità pure lui. Mio nonno Giovanni diceva che sui Carpazi ha ucciso degli orsi per sfamarsi, che a casa di orsi non ne avrebbe uccisi perché sono migliori degli umani, che in guerra viene più naturale uccidere gli uomini che gli orsi. Mio nonno Giovanni mai raccontò di avere ucciso nemici.
Di orsi sul Baldo ne sappiamo dal Quattrocento per Francesco Corna da Soncino, che, dopo “l’erbe de le medicine che in tutto il mondo sono le più fine” e “fiere da caciare che assai se pilian l’inverno e de la state capre selvaze camoze cinghiari”, scrisse di “orsi grandi de gran ferocidade”. Un orso che gioca coi bambini appare su una tela di Biagio Falcieri nella chiesa di San Romedio a Fontéchel, una delle destituite Regole locali. Di feroci orsi assassini predicevano gli imperiali ai locali a proposito dell’aspetto e della condotta dei soldati invasori di Vendôme e Napoleone (i locali si nascosero sulle alture e negli anfratti di mezzo Baldo tridentino).
Da un paio di decenni qualche orso vero compare saltuariamente sul Baldo anche brentegano (tutti i locali lo sanno). Negli ultimi 25 anni Brentonico conta 1.200 abitanti in più, da 3.000 a 4.200, con 1.118 cognomi diversi a fine 2023 (tanti locali pare non se ne siano accorti). Aldo Gorfer descrisse l’Altopiano di Brentonico come “piccola patria”, Eugenio Turri lo definì “nicchia brentegana”.
Gli orsi sono virtualmente comparsi sul Baldo brentegano con “Il predatore”, romanzo noir di Marco Niro. Nel leggerlo mi sono dilettato a situare in loco i luoghi esposti (l’Altissimo già c’era, come anche il lago, quello del Pra’ de la Stùa, e la strada a traffico stagionale) e a identificare i personaggi raccontati con locali in vita o non più (per un sindaco, un imprenditore, dei faccendieri, un medico è risultato facile).
Io mi sono dato il ruolo del prete progressista, sostituendomi, per invidia intellettuale, all’autore. Alla presentazione dell’opera in libreria si è detto che l’orso rappresenta la biodiversità, il limite, il diverso, la paura, l’allegoria dell’autenticità contro l’apparenza. È stato anche detto che Il predatore esprime simbolicamente la regressione umana. Io credo che il valore di questo lavoro di Niro stia nell’avvisare che si sia già oltrepassato un limite ben più spaventevole dei seppur rovinosi timori involutivi: quello che conduce all’uniformazione antropologica, all’omologazione culturale, all’indifferenza ecologica sostanziale, alla dominanza capitalista, assurte di fatto a sistema civile, sociale, politico
Quinto Canali, già vice-sindaco di Brentonico,
segretario dell’associazione
“Monte Baldo Patrimonio dell’Umanità”
Uno dei pregi de “Il predatore” è quello di toccare alcuni nervi scoperti che caratterizzano i modi con cui le terre alte vengono oggi descritte e sui quali si riflette spesso con una certa approssimazione. La rappresentazione delle comunità di montagna soffre ancora di una tendenza all’agiografia di stampo idilliaco, tesa spesso a sottolineare il carattere armonico che ne definisce le relazioni interne e quelle con l’ambiente circostante. Nell’immaginario costruito da opere di narrativa mainstream e articoli giornalistici superficiali permane l’idea di una saggezza specificamente montanara capace di istituire rapporti di equilibrio con le risorse ambientali e di costruire reti sociali di mutuo appoggio, reciprocità, solidarietà. Se mai in passato tali elementi siano stati prevalenti non mette conto di essere argomentato qui, certo invece è che la frammentazione sociale messa in luce nel romanzo di Niro è un elemento evidente a chi vive in alcuni paesi di montagna. Almeno a chi ci vive con un certo spirito critico e scarsi interessi di parte.
In un contesto a cui non sono estranei conflitti di vario tipo tra diverse componenti sociali - sovente con connotazioni di classe, in particolar modo dove è più sviluppata l’industria turistica - l’orso è venuto di recente ad assumere un ruolo sempre più decisivo nella ridefinizione del senso di appartenenza, collante essenziale per tenere insieme quel che resta di una comunità, obiettivo tanto politico quanto economico. Sotto questo secondo aspetto va rilevato quanto l’immagine che le destinazioni turistiche devono mostrare sul mercato influisca in maniera profonda sulla percezione che gli abitanti hanno di loro stessi.
Ma che funzione svolge l’orso? Nel romanzo di Niro la sua presenza incarna per gli abitanti l’altro da sé, il pericolo, il male, il negativo da temere e scongiurare. L’estraneo che permette il processo di ricomposizione del consorzio civile (e il suo utilizzo spregiudicato da parte di un ambizioso politico locale), utilizzando il cemento più efficace che ci sia: la paura. E la paura porta a galla i pregiudizi più atavici e i peggiori istinti. Pur di conservare ciò che si è o ciò che si ha si sacrificano agevolmente principi e valori di ordine superiore.
Ciò che a me pare sia accaduto dal momento in cui la presenza dell’orso in Trentino è emersa e ha acquisito una valenza simbolica profonda, è tuttavia qualcosa che prescinde dalla manipolazione che ne è stata fatta su un piano politico, per ragioni di consenso. C’è qualcosa in più, ed è quella ricomposizione di cui sopra, una ricollocazione del proprio posto nel mondo, in termini sia individuali che comunitari, a partire dalla constatazione che qui dove siamo, qui in montagna intendo, non siamo soli.
La necessità di fare i conti con la presenza dell’altro, un altro non controllabile e non sfruttabile, quindi minaccioso in quanto impossibile da integrare spinge la gente di montagna a rimarcare la propria specificità. Questa è vissuta in termini di contrapposizione con coloro i quali non hanno a che fare direttamente con l’orso sotto casa, gli abitanti della città, tipicamente, sempre più percepiti come incapaci di vedere “i problemi veri di chi vive quassù”.
A questo processo di identificazione di sé come tutti coloro che affrontano una comune situazione se ne affianca un secondo. L’impressione cioè che vi sia una forza, l’orso, o meglio, la paura dell’orso, capace di mettere in crisi il controllo che noi esercitiamo sul nostro territorio, nella convinzione che esso sia disponibile per noi, nel nostro possesso esclusivo, che è appunto il secondo elemento di costruzione di una identità, dopo la definizione di ciò che non siamo. La frase che si sente spesso ripetere, “Non possiamo più andare nei nostri boschi”, svela la natura del rapporto contemporaneo tra montanari e montagna. Essa è proprietà di chi ci vive. Chi ci vive la può legittimamente sfruttare a proprio esclusivo vantaggio, così come può arrogarsi il diritto di decidere chi può o non può starci. Il percorso di ridefinizione di sé oggi in atto nelle comunità di montagna passa non attraverso l’accoglienza, ma attraverso l’espulsione. Ciò che non viene avvertito è che al termine di questo progressivo impoverimento (nessun dialogo con la città, eliminazione di orsi e lupi) c’è la perdita di quanto rinvigorisce ogni cosa: il confronto. Senza confronto alla montagna non rimarrà che mettere in scena se stessa, sempre più stancamente.
Convivere con le proprie paure, spontanee o indotte che siano, reali o artefatte, è difficile. Riconoscerle, ammetterle, gestirle è forse la sola strada che resta ai montanari per trovare una identità che non sia appiattita sull’omologazione o chiusa nella prepotenza.
Gianni Mittempergher,
gestore del Rifugio Caré Alto
Mi si chiede se riconosco la mia realtà di valle in quella dipinta da "Il predatore". Fatico a credere che in un paese grande come Cimalta la messa sia ancora un luogo dove si incontra la comunità e dove tutti sanno tutto di tutti. Credo che potesse essere così negli anni '80, ora non più. Realistico invece è il potere che esercita sulla società e sull'economia di una valle l'azienda o il comparto più potente: penso a Melinda in Val di Non, al porfido nelle valli del porfido, al turismo in Val di Sole, Fiemme, Fassa, ecc. Si tratta di entità economiche che spesso finiscono per essere più potenti delle istituzioni, nel bene e nel male. I risvolti violenti sono dal mio punto di vista iperbolici: abbiamo anche noi la nostra cronaca nera (anche notevole e fantasiosa), ma raramente questi atti sono organizzati o criminali. Non trovo così irrealistica l'ascesa del politico, per quanto veloce. Il fascino del self made man è una roba tutta italica che non disdegniamo neanche da queste parti. Le miserie umane narrate sono realistiche, ma quelle già le condividiamo col resto del mondo.
Questa realtà è plausibile? In parte. Ci sentiamo rappresentati? Sì e no. Forse questo esercizio cela il desiderio, legittimo e tutto trentino, di essere raccontati, di esistere all'interno di una narrativa. Non credo però che la mimesi della realtà sia il punto. Credo che il romanzo ambisca a molto di più che raccontare noi trentini/alpini. In sostanza concordo col recensore: ritengo "Il predatore" un romanzo di fantapolitica ambientato in una valle alpina, un'iperbole della nostra realtà. Credo che il tema del romanzo non sia la realtà alpina in sé, né tanto il rapporto nuovo con l'orso, ma l'incontro/scontro con il diverso, cui la realtà alpina fornisce solo il contesto. Quando ho conosciuto Marco di persona (qualche mese fa) gli ho citato questa frase di Tolstoj a me cara: "Se vuoi essere universale, parla del tuo villaggio". Credo che Marco sia riuscito a essere universale, ambientando la sua storia in una versione più action (ergo obiettivamente più interessante) delle nostre valli.
Felix Lalù,
cantautore e artista visuale (Val di Non)
L’avvincente noir scritto da Marco Niro ci porta all’interno dell’attualità sociale del Trentino. Protagonista involontario è l’orso, un selvatico perdente nella lotta con un predatore totalizzante, l’uomo. Quest’ultimo un essere vivente avido e egoista, propenso oggi, anche nelle montagne, a seguire un’unica morale: quella del mercato. Un quadro che pochi mesi fa aveva portato la popolazione della Valsesia a ritenersi offesa nell’ambientazione dell’ultimo romanzo di Paolo Cognetti, “Giù nella valle”. Accadrà anche in Trentino? Forse peggio, si preferirà alzare il muro del silenzio.
Il lavoro di Niro è realistico, quindi disturberà il benpensante, oppure scoccerà chi ancora crede nel montanaro difensore della qualità del territorio, il custode attento della cura delle vallate.
L’abitare la montagna non ci presenta il montanaro solidale, quello capace di inventare comunità e diritti di uso civico tesi a garantire a tutti l’usufruire dei beni comuni: acque, prodotti del legno, diritto di escavazione, pascoli concordati, manutenzione e cura del territorio.
Il libro ci presenta un montanaro trasformato, omologato alla cultura della città, inserito in un ambiente sociale ricco di sconfitti. Certo generalizzo in modo pesante, ma quando va bene, nelle vallate si vive rassegnati e rinchiusi nelle famiglie.
Quando poi prevale la disperazione, il ricovero è il bar. Ovunque regna diffidenza: la comunicazione intima, la solidarietà sono umiliate. Siamo in presenza di una realtà fragile dal punto di vista sociale, forte di insicurezze familiari e di gruppo. L’unità (quando si deve difendere la categoria, altrimenti è conflitto duro) la si trova nel mondo venatorio, questo sempre disposto alla predazione. Come del resto è disposto alla predazione, alla spregiudicatezza, il politico. Chi vive una umanità diversa può scegliere tre strade: un conflitto continuo, l’isolamento, o la chiusura nella disperazione. In poche parole, o ti disarmi della tua sensibilità o ti devi rassegnare, quindi omologarti.
Il volume è forte di una scrittura profonda, capace di sfogliare fotografie reali dei boschi, della psicologia umana, ricca di contraddizioni. Si viene catturati nel leggere anche perché, quando una scenario viene dato per scontato, poche righe dopo ti sorprende. Gli avvenimenti scorrono veloci e si aprono d’improvviso finestre inattese. L’autore ci lascia rispondere a una domanda non resa esplicita. Chi è il predatore?
Luigi Casanova, giornalista, presidente onorario di Mountain Wilderness